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Giovane astrofisica trasferitasi negli States, Francesca Valsecchi è autrice di un’importante scoperta che ha recentemente permesso di fare luce sui misteri che avvolgono la formazione dei buchi neri. La sua è una storia di determinazione, tenacia e, come spesso accade, di cambi di programma…
Due occhi azzurri come il cielo e un sorriso che conquista, Francesca Valsecchi ha 30 anni e all’attivo ha già un’importante scoperta che le è valsa le pagine di Nature. E’ all’ultimo anno di un dottorato in astrofisica alla Northwestern University di Evanston (Chicago), si dedica da oltre tre anni allo studio di quelle misteriose e affascinanti entità conosciute come buchi neri. E senza aver mai posseduto un telescopio. Nonostante le migliaia di chilometri e le ben sette ore di fuso orario che ci separano, riesco a raggiungerla attraverso le infinite vie della grande Rete. Mi racconta del suo lavoro e della sua vita, che trascorre con grande dedizione a metà tra le stelle e l’altra parte dell’oceano.
Come sei arrivata a Chicago?
Mi sono laureata in Fisica con indirizzo in fisica subnucleare a Milano, dove sono nata, e durante lo svolgimento del mio progetto di tesi ho avuto la possibilità di trascorrere circa un mese al Fermilab di Chicago (Fermi National Accelerator Laboratory). E’ stata questa esperienza che mi ha spinto a proseguire gli studi con un dottorato di ricerca negli Stati Uniti. Infatti, nonostante sia eccellente il livello di preparazione offerto dall’Università in Italia, la possibilità di proseguire con un dottorato nel mio Paese non mi entusiasmava, vista la situazione in cui si trova il finanziamento alla ricerca…
Con l’intenzione di proseguire la mia carriera nella fisica delle particelle e di lavorare al Fermilab, una volta laureata ho inoltrato domanda a due università di Chicago: la University of Illinois at Chicago e la Northwestern University. Entrambe le Università hanno accettato la richiesta ed io ho optato per la seconda. Oggi sono al penultimo anno di Ph.D e mi occupo di vari aspetti della fisica degli oggetti compatti: nane bianche, stelle a neutroni e buchi neri. Una parte della mia ricerca è focalizzata su modelli teorici volti a spiegare la formazione dei sistemi binari contenenti una stella ed un buco nero, chiamati sistemi binari X.
Come si diventa “scienziati delle stelle”? La tua passione per l’astrofisica è nata forse in maniera romantica, guardando il cielo stellato con il telescopio da bambina?
Anche se probabilmente potrà sembrare poco romantico… non ho mai avuto un telescopio! Infatti, ho intrapreso il percorso di astrofisica circa tre anni fa, dopo aver passato un paio d’anni nel mondo della fisica delle particelle e dopo aver capito che forse quella non era la mia strada. Alla Northwestern University ho incontrato la mia attuale relatrice, la professoressa Vicky Calogera, con la quale ho incominciato, imparando l’astrofisica di base per poi intraprendere lo studio di M33 X-7.
Proprio nell’ambito di questo studio sei stata di recente protagonista di un’importante scoperta per il mondo dell’astrofisica. Di cosa si tratta?
La mia scoperta ha riguardato per l’appunto il sistema binario M33 X-7. L’osservazione dei buchi neri isolati è solitamente molto difficile, ma se accoppiati ad una stella che trasferisce loro massa, questi massicci oggetti compatti diventano sorgenti di raggi X – di qui il nome “sistemi binari X”. Proprio per il fatto che i sistemi binari X rendono i buchi neri “visibili”, questi sistemi costituiscono un importante laboratorio per il loro studio. M33 X-7 contiene uno dei buchi neri stellari più massicci mai scoperti, ed un buco nero di tale massa risultava difficile da spiegare tramite i canali evolutivi normalmente utilizzati per spiegare sistemi binari X.
Noi siamo stati i primi a proporre un modello che ricostruisce l’intera storia evolutiva del sistema e che ne spiega le proprietà. Nel caso specifico di M33 X-7, viste le masse delle componenti, il nostro modello evolutivo accresce anche la comprensione dell’evoluzione di stelle massicce e potrà essere utilizzato per gli studi futuri sull’evoluzione di stelle massive e sistemi binari. Abbiamo iniziato a lavorare su M33 X-7 nel 2007 e lo studio è stato accettato da Nature ad agosto scorso. Un lavoro durato più di due anni…
Qual è la sensazione che hai provato nel momento in cui ha realizzato di aver fatto una scoperta di questa portata?
Se devo essere sincera mi sa che ancora non l’ho realizzato (ride)… in ogni caso direi che è una gran bella soddisfazione! La prima persona alla quale l’ho comunicato è stata la mia relatrice, la Professoressa Vicky Calogera che è stata ovviamente molto felice del fatto che dopo più di due anni di lavoro fossimo finalmente riusciti a scoprire un modello evolutivo in grado di spiegare le proprietà di un sistema così peculiare.
Come potresti descrivere la tua giornata “tipo”?
Come credo ogni studente di dottorato, non ho una vera giornata “tipo”. In genere arrivo in ufficio alle nove del mattino e ad attendermi ci sono solitamente meeting e seminari, il lavoro al mio progetto di ricerca, i due laureandi che sto seguendo e le visualizzazioni grafiche di simulazioni stellari di cui mi sto occupando in collaborazione con la Northwestern University Academic and Research Technologies. Torno a casa la sera verso le otto e spesso dopo cena riprendo a lavorare a casa, o in una delle caffetterie vicine, fin verso l’una del mattino.
Inevitabile, sentendo la tua storia, la domanda sulla tanto discussa “fuga dei cervelli”. Qual è la tua opinione in merito a questo fenomeno che ti vede coinvolta in prima persona?
Come dicevo prima, mi sono trasferita negli Stati Uniti perché l’idea di un dottorato in Italia non mi entusiasmava vista la situazione in cui si trova il finanziamento alla ricerca. Lasciare la propria famiglia e gli amici per spostarsi in un posto così lontano da casa non è stata ovviamente una scelta facile, ma in tale scelta ho trovato l’appoggio convinto sia di alcuni colleghi universitari sia dei miei genitori.
Se nel nostro Paese fossero maggiori gli investimenti nella ricerca, è probabile che molti degli studenti e dei ricercatori che attualmente si trovano all’estero sarebbero rimasti molto volentieri in patria (un esempio: il mio coinquilino è un chimico di Parma di 29 anni che si è trasferito a Chicago e un anno fa ed è diventato professore!).
In ogni caso, una cosa che tengo a sottolineare è che la ricerca in America è per gente dura, disposta a lavorare davvero tanto e che si diverte a competere.
La più grande rinuncia che hai dovuto fare per poter diventare una scienziata?
La vicinanza costante della mia famiglia e degli amici della mia gioventù. Senza dubbio…