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Una storia made in Italy

Di 07/05/2010Marzo 15th, 2023No Comments

made-in-italy-logodi Michela Cocchi (avvocato membro dell’UIA)

Funzionalità e bellezza sono l’essenza della civiltà Italiana, che, sin dal suo inizio, ha teso a farsi pratica ed enfatizzare forma e armonia. La peculiarità dell’economia italiana sta nella preponderanza di produzioni tradizionali, realizzate da imprese di medio-piccole dimensioni, spesso a conduzione familiare, note come Made in Italy, vulnerabili alla competizione sleale delle contraffazioni. L’ambito nel quale queste produzioni si sviluppano è caratterizzato, da un lato, dai nazionali accentuati dualismi territoriali e settoriali e, dall’altro lato, da modi di soddisfazione delle esigenze solidaristiche tali da incidere significativamente nella struttura dei bilanci pubblici e nell’azione delle imprese private, peraltro, già gravate dai costi della sovraregolamentazione esistente.

Nella prospettiva internazionale globale, da sempre, il Made in Italy è considerato segno distintivo della tradizione, della cultura, del design, della qualità, della creatività del nostro Paese, chiaramente identificabile per l’esistenza di riferimenti, diretti e indiretti, che conferiscono quello specifico valore suggestivo e aggiunto, diverso e ulteriore rispetto a quello di mero indicatore di origine geografica, idoneo a costituire elemento di stimolo all’acquisto per i consumatori finali. Nell’ultimo ventennio, peraltro, è emersa, sempre più diffusa, la tendenza delle imprese a delocalizzare la produzione in Paesi dove il costo del lavoro e la pressione fiscale permettono loro di essere maggiormente competitive sul mercato, divenuto globale.
Il fenomeno, che s’inquadra nel c.d. outsourcing, consistente nel delegare a fornitori esteri la gestione di attività considerate non strategiche per l’impresa – in pratica, nel trasferire, in tutto o in parte, il processo di produzione – ha portato a contrassegnare, con l’indicazione Made in Italy, prodotti integralmente realizzati in Paesi extracomunitari, con grave danno per l’economia e l’immagine del nostro Paese.

Fino alla emersione di tale fenomeno, la corretta indicazione dell’origine di un determinato prodotto proveniente dall’estero non era oggetto di una puntuale tutela da parte della legislazione nazionale. Secondo quanto stabilito dalle disposizioni doganali comunitarie [contenute negli artt. da 23 a 26 del Reg. CE 12 ottobre 1993, n. 2913, afferente il “Codice doganale comunitario”, nonché dalle Convenzioni internazionali sulle regole di origine, rispettivamente, di Kioto del 1973 e di Marrakech, siglata, nel 1994, nell’ambito dei negoziati relativi all’Uruguay Round], l’origine di un prodotto è stabilita in base al Paese in cui lo stesso è “interamente ottenuto” (prodotti del suolo, del sottosuolo, della caccia e della pesca, ecc.) o ha subito una “trasformazione sostanziale” (prodotti industriali che utilizzano materiali di diversa provenienza) o che ha determinato un incremento del suo valore economico superiore ad una certa percentuale. Fino a poco tempo fa, le uniche regole in materia erano dettate dall’Arrangement di Madrid del 14 aprile 1891, che obbliga il venditore, qualora apponga sulle merci il proprio nome e indirizzo, a specificare “con caratteri evidenti”, il luogo originario di fabbricazione, dove non coincida con quello di vendita, proibendo l’impiego delle indicazioni di provenienza “false o fallaci” anche nelle insegne, nelle comunicazioni pubblicitarie e commerciali: l’accordo di Madrid è stato ratificato in Italia, nel testo approvato a Stoccolma nel 1967, con la legge 28 aprile 1976, n. 424.

Successivamente, il nostro legislatore, a seguito degli impegni assunti in sede internazionale, ha introdotto alcune specifiche disposizioni sulle “indicazioni geografiche”, intese come quelle che “identificano un Paese, una regione o una località, quando siano adottate per designare un prodotto che ne è originario e le cui qualità, reputazione o caratteristiche sono dovute esclusivamente o essenzialmente all’ambiente geografico d’origine, comprensivo dei fattori naturali, umani o di tradizione” [già art. 31, comma 2, D.Lgs. 19 marzo 1996, n. 198, ora art. 30 D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 (Codice della proprietà industriale)]. Più recentemente, il D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo), muovendosi nell’ottica del consumatore, ha stabilito che i prodotti e le confezioni destinati a questi ultimi e commercializzati nel territorio nazionale, indichino, in modo chiaramente visibile e leggibile, sia il marchio e la sede legale del produttore o dell’importatore stabilito nell’Unione europea, sia il Paese d’origine, se situato fuori dall’Unione europea. Ma l’attuazione della disposizione è stata rimandata fino all’emanazione di un regolamento, che non ha ancora visto la luce.
Allo scopo di porre un argine al fenomeno dilagante dell’outsourcing, negli ultimi anni, il Made in Italy è stato oggetto di tutela da parte di numerosi interventi normativi e giurisprudenziali, finalizzati a una più precisa e incisiva regolamentazione degli obblighi in capo ai soggetti economici.

Da ultimo, l’art. 16, comma 8, D.L. 25 settembre 2009, n. 135, convertito con la L. 20 novembre 2009, n. 166, ha introdotto, in seno alla L. 24 dicembre 2003, n. 350 (Legge finanziaria per il 2004), l’art. 49 bis, a tenore del quale “Costituisce fallace indicazione l’uso del marchio da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sull’effettiva origine estera del prodotto. Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 ad euro 250.000 “. La legge di conversione ha anche definito cosa debba intendersi per prodotto interamente realizzato in Italia e classificabile come “Full Made in Italy”. Tale indicazione può essere apposta solo sui prodotti per i quali “il disegno, la progettazione, la lavorazione ed il confezionamento sono compiuti esclusivamente sul territorio italiano”. L’indebito utilizzo di un’etichetta è punito con le pene previste dall’art. 517 c.p. sulla vendita di prodotti industriali con segni mendaci, aumentate di un terzo.

E’ di appena il 17 marzo 2010 l’approvazione definitiva della Proposta di Legge n. 2624-B relativa a “Disposizioni concernenti la commercializzazione di prodotti tessili, della pelletteria e calzaturieri”. Il provvedimento istituisce e introduce un vero e proprio sistema di etichettatura obbligatoria per i prodotti finiti e intermedi destinati alla vendita nel settore tessile, della pelletteria e della calzatura al fine di consentire ai consumatori finali di ricevere un’adeguata informazione sul processo di lavorazione dei prodotti. Tale sistema di etichettatura deve evidenziare il luogo di origine di ciascuna fase di lavorazione e assicurare la tracciabilità dei prodotti stessi.
Il provvedimento definisce come “prodotto tessile” ogni tessuto o filato, naturale, sintetico o artificiale, che costituisca parte del prodotto finito o intermedio destinato all’abbigliamento, oppure all’utilizzazione quale accessorio da abbigliamento, oppure all’impiego quale materiale componente di prodotti destinati all’arredo della casa e all’arredamento, intesi nelle loro più vaste accezioni, oppure come prodotto calzaturiero.
L’impresa produttrice deve fornire nell’etichetta dei prodotti finiti e intermedi, in modo chiaro e sintetico informazioni relative a: conformità dei processi di lavorazione alle norme vigenti in materia di lavoro, garantendo il rispetto delle convenzioni siglate in seno all’Organizzazione internazionale del lavoro lungo tutta la catena di fornitura; certificazione di igiene e di sicurezza dei prodotti; esclusione dell’impiego di minori nella produzione; rispetto della normativa europea e rispetto degli accordi internazionali in materia ambientale.
Di particolare rilevanza, si rivela la disposizione relativa a quali prodotti, tra quelli precedentemente indicati, possano fregiarsi dell’indicazione Made in Italy. A tal fine è necessario che le fasi di lavorazione: abbiano avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale; almeno due delle fasi previste per ciascun settore siano state eseguite in Italia; sia identificabile dove siano state eseguite le fasi rimanenti.

Nel settore tessile, per fasi di lavorazione si intendono: la filatura, la tessitura, la nobilitazione e la confezione compiute nel territorio italiano anche utilizzando fibre naturali, artificiali o sintetiche di importazione.
Nel settore della pelletteria, per fasi di lavorazione si intendono: la concia, il taglio, la preparazione, l’assemblaggio e la rifinizione compiuti nel territorio italiano anche utilizzando pellame grezzo di importazione.
Nel settore calzaturiero, per fasi di lavorazione si intendono: la concia, la lavorazione della tomaia, l’assemblaggio e la rifinizione compiuti nel territorio italiano anche utilizzando pellame grezzo di importazione. Ai fini dell’attribuzione dell’indicazione Made in Italy, vengono, inoltre, previste specifiche disposizioni riguardanti il settore conciario e quello dei divani. Per prodotto conciario, si intende il prodotto come definito all’art. 1 L. 16 dicembre 1966, n. 1112, che costituisca parte del prodotto finito o intermedio destinato all’abbigliamento, oppure all’utilizzazione quale accessorio da abbigliamento, oppure all’impiego quale materiale componente di prodotti destinati all’arredo della casa e all’arredamento, intesi nelle loro più vaste accezioni, oppure come prodotto calzaturiero. Le fasi di lavorazione del prodotto conciario si concretizzano in riviera, concia, riconcia, tintura-ingrasso-rifinizione.
Il provvedimento, con la sua ulteriore serie di norme di attuazione e sistema di sanzioni, acquisterà efficacia dal 1° ottobre 2010: la tempistica è stata appositamente prevista per permetterne il varo comunitario. Il testo approvato dalla Camera è, infatti, chiaramente una bandiera, un’affermazione di principio, che legiferando su materia comunitaria, può essere sottoposto a relativa infrazione. Vedremo.