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di Giulia Dall’Aglio

Il 15 luglio 2022 è entrato in vigore il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, dopo uno slittamento di quasi due anni dalla data originariamente prevista. Con le ultime modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 83/2022, il Governo italiano ha dato, inoltre, attuazione alla Direttiva Ue 2019/1023 e attratto all’interno del CCII le disposizioni del D.L. 118/2021 in materia di composizione negoziata della crisi.
In realtà il cambiamento è avvenuto in sordina e tuttora si può sostenere sia poco chiara, per i tecnici, la concreta applicabilità del Codice: c’è chi sostiene si tratti addirittura di un fiasco dato che, al novembre 2022, a livello nazionale sono state presentate solo 485 istanze di composizione negoziata della crisi d’impresa. Mentre altri 545 ricorsi sono fermi al palo in attesa che gli enti pubblici, Agenzia delle entrate e Inps, provvedano a consegnare i certificati obbligatori per dare il via alle richieste di nominare il professionista esperto indipendente che aiuti le imprese in difficoltà a uscire dalla crisi.
La procedura fallimentare dunque scompare e viene introdotta la liquidazione giudiziale in conformità a quanto avviene in altri Paesi europei, come la Francia o la Spagna, al fine di evitare il discredito sociale anche personale che anche storicamente si accompagna alla parola fallito. A voler riassumere lo spirito della riforma si deve rilevare che è stato posto l’accento sulla prevenzione, ovvero sul tentativo di intercettare tempestivamente la crisi d’impresa: in tale contesto, dunque, tutte le imprese dovranno dotarsi di adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili, anche al fine di rilevare tempestivamente la crisi e l’eventuale perdita della continuità aziendale.
Si tratta di misure dallo spirito cosiddetto protettivo, che possono essere adottate solo una volta che l’impresa abbia prodotto una corposa documentazione in Camera di commercio (centrale rischi, certificato dei debiti contributivi e per premi assicurativi…) di cui gran parte deve essere rilasciata da enti pubblici.
Rimane il forte dubbio valutativo alla radice della procedura: se da un lato la stessa garantisce, una volta avviata, una forma di ombrello protettivo per effetto del quale si ottiene la sospensione delle aggressioni esecutive da parte dei creditori, tutelando altresì la continuità aziendale, dall’altro permane un dato non trascurabile. Proclamare lo stato di crisi potrebbe mettere in allarme tutti i soggetti terzi con i quali l’azienda quotidianamente si relaziona (banche, dipendenti, fornitori) con il rischio concreto che costoro possano ritirare la loro fiducia aggravando la posizione sociale.
A tal proposito si segnala la notizia dello scorso ottobre che riferisce della programmazione, da parte del Governo, di bloccare il sistema di alert da crisi di impresa da parte dell’Agenzia delle entrate e che dovrebbe operare ogni volta in cui l’impresa manifesti incongruenze fiscali anche lievi, quali ad esempio ritardi nei pagamenti, presupposti di una eventuale crisi d’impresa.