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Nevicate abbondanti e prolungate, anche a bassa quota, con le città della via Emilia in tilt e zone montane isolate da black out elettrici. Una sfilza di giorni di pioggia senza precedenti negli ultimi decenni. Precipitazioni torrenziali di breve durata, vere e proprie bombe d’acqua, di una violenza tale da trasformare le strade in fiumi percorribili in canotto, come è avvenuto nella Bassa Parmense. Tornado che scoperchiano case nel Modenese e grandinate diffuse. Una costellazione di frane in tutto l’Appennino emiliano, soprattutto nel Reggiano e nel Parmense, con famiglie sfollate, case e aziende crollate, strade interrotte, forniture elettriche e idriche saltate. Benvenuti nell’Emilia, anno domini 2013. In queste istantanee c’è chi vede un’anteprima di quell’apocalisse climatica profetizzata e ignorata per lungo tempo, e chi scorge i nodi che vengono al pettine di una storica incuria nei confronti del territorio, cementificato in pianura e abbandonato in montagna.

Frana l’Appennino
A fine maggio, la Protezione civile regionale contava circa 1800 casi di dissesto o criticità idrogeologica, per un totale di 126 residenti evacuati, 31 attività produttive distrutte o fortemente danneggiate e 138 località isolate. La stima economica dei danni da parte della Regione, che risale invece all’inizio di maggio, parla di circa 141 milioni di euro. Ma è un numero al ribasso, che non tiene conto delle ripercussioni sulle attività economiche, in particolare per l’agricoltura. Reggio Emilia, Modena e Parma sono le province più colpite, e le conseguenze più pesanti per le persone si registrano proprio nel Parmense. Nel solo Comune di Tizzano Val Parma sono stati evacuati 30 residenti, demolite quattro abitazioni e un capannone, e altre 20 strutture sono state dichiarate parzialmente o del tutto inagibili (i danni complessivi non sono inferiori a 10 milioni di euro). Nella confinante Corniglio, a Sauna, lo stesso desolante scenario, con ordinanze di demolizione e famiglie sfollate, la paura di chi vede il mostro avanzare ogni giorno e il dolore di chi si è visto portare via la casa o la stalla nella quale ha lavorato una vita. «Quello che accade è la conseguenza di un periodo di nevicate e pioggia di oltre tre mesi. In Emilia-Romagna ci sono migliaia di frane quiescenti che sono state attivate dalle abbondanti precipitazioni». Nicola Casagli, professore di Geologia all’Università di Firenze, è stato subito inviato dalla Protezione civile nazionale nel Parmense, «la zona più instabile dell’Emilia e dell’Appennino a causa della sua costituzione geologica, con argille diffuse e rocce poco cementate», per eseguire studi e monitorare l’evolversi della situazione.

In stato d’abbandono
Di fronte ai disastri della montagna l’indiziato numero uno è sempre l’abbandono del territorio, un tempo presidiato grazie al lavoro degli agricoltori e oggi invece sempre più disabitato. «Certo l’attività agricola capillare di 50 anni fa aveva il grosso beneficio di mantenere l’assetto idrogeologico, perché si curavano i terrazzamenti, si ripulivano i fossi e si svolgevano tante altre attività utili – dice il professor Casagli – Però oggi non è più pensabile che si torni a un modello economico di quel tipo». Di certo l’attività agricola che è rimasta merita di essere incentivata per la sua utilità pubblica. Ma è necessario qualcosa di più. «A livello nazionale gli interventi per la difesa del territorio sono insufficienti: destiniamo a questo settore una cifra di 350 volte inferiore rispetto a quella per le spese militari, tanto per fare un esempio. Servono interventi di cura dei fiumi e dei versanti, terrazzamenti e altro ancora. Come è noto costa molto meno prevenire che intervenire dopo i disastri. Si dice che mancano i soldi? Si potrebbe obbligare i Comuni a usare gli oneri di urbanizzazione per questi interventi e non per fare cassa, come è stato fatto in passato. Il settore dell’edilizia ci guadagnerebbe e avremmo il territorio in ordine». Soltanto nel novembre scorso la Provincia di Reggio Emilia ha elaborato un piano che prevedeva stanziamenti di 106 milioni di euro per il territorio: una cifra che di questi tempi sembra enorme, ma che assume tutt’altro significato alla luce delle conseguenze economiche del maltempo di questi mesi. Di certo non è mai il momento giusto perché si verifichi una calamità naturale, ma lo stato delle casse pubbliche nell’epoca della grande recessione rende tutto ancora più difficile. E’ emerso con chiarezza con il terremoto del maggio 2012 e il problema si ripropone ora con l’emergenza frane. Anche nel Parmense la Provincia deve fare i conti con le interruzioni su sei importanti strade di sua competenza: per ripristinare le comunicazioni, fondamentali per un territorio vulnerabile come quello montano, servono risorse immediate e ingenti. Senza deroghe al Patto di stabilità i Comuni hanno le mani legate e nelle prime ore dell’emergenza cittadini, volontari e istituzioni del territorio hanno messo a disposizione tutto quello che avevano per intervenire. Nel pieno dell’emergenza, gli abitanti dell’Appennino hanno espresso a più riprese la preoccupazione di essere abbandonati: dal nuovo Governo sono comunque arrivati segnali incoraggianti, a partire dall’incontro avvenuto a Roma tra una delegazione del Parmense e i presidenti di Camera e Senato. Il Consiglio dei ministri ha poi dichiarato lo stato d’emergenza, il 10 maggio, mettendo a disposizione un primo stanziamento di 14 milioni di euro per le somme urgenze. Si attende un secondo decreto per fare fronte all’ammontare complessivo dei danni.

Che clima è questo?

In Emilia le abbondanti nevicate, le temperature che si sono alzate velocemente e le piogge prolungate hanno rimesso in moto frane vecchie anche di secoli o ne hanno attivate di nuove. L’Arpa Emilia Romagna ha calcolato che si debba tornare al 1961 per trovare precipitazioni simili a quelle dei primi tre mesi del 2013, con oltre 350 millimetri in Appennino e 600 in alta quota. Anche i giorni di pioggia sono stati il doppio rispetto alla media degli ultimi vent´anni. «La particolarità di questi mesi consiste nel numero di giorni delle precipitazioni – dice la geologa dell’università di Bologna Silvia Franceschini – Nel 2008 e 2009 nel Bolognese si erano verificate precipitazioni violentissime, di durata ridotta, che diedero vita ad alcune frane. In queste settimane invece si sono registrati tanti giorni di piogge, generalmente poco intense. Un’ipotesi sulla quale l’Università e la protezione civile regionale stanno lavorando è che differenti tipi di precipitazioni provochino diverse modalità di frane: quelle violente attivano le argille, quelle prolungate invece i terreni più grossolani». Ad aprile, a Parma e provincia ci sono stati continui allagamenti e veri e propri diluvi, con ponti chiusi, cantine allagate, canali tracimati e danni pesanti all’agricoltura. Il 20 aprile nelle zone di Colorno, Torrile e San Polo si è verificata una bomba d’acqua, con 100 millimetri caduti in pochissimo tempo. Il 3 maggio grandinate e trombe d’aria hanno flagellato il Modenese, scoperchiando case e distruggendo auto. Davanti a casi simili siamo abituati a fare confronti con il passato. «Per trovare un periodo più piovoso dei primi tre mesi del 2013 a Modena dobbiamo tornare al 1906 – spiega il metereologo Luca Lombroso – Ma questi paragoni sono del tutto privi di senso perché siamo nel mezzo di un cambiamento climatico. I riferimenti del passato non servono a fare previsioni. Inoltre è più corretto dire che non ci troviamo di fronte a calamità naturali, ma antropiche, prodotte dall’uomo». Le emissioni di anidride carbonica, generate dai combustibili fossili, provocano infatti il riscaldamento del pianeta e gli effetti di tropicalizzazione del clima si manifestano anche nella pianura padana. «Parlare d’emergenza o eventi eccezionali non ha senso e soprattutto non è utile. Il clima e – di conseguenza – il territorio stanno cambiando: le aziende e le istituzioni devono prenderne atto perché un euro investito in difesa del territorio consente di risparmiarne sette a disastro avvenuto. Secondo l’economista britannico Nicholas Stern il costo del non intervento in futuro è compreso tra il 5 e il 20% del Pil mondiale. Basterebbe investire ora l’1% del totale per evitare questi esborsi». Saremo previdenti o come avvenuto in passato continueremo a intervenire solo in presenza di danni conclamati? Nei mesi scorsi l’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini aveva detto che in Italia servirebbe un piano da 40 miliardi in 15 anni per mettere in sicurezza il nostro territorio. «È la stessa cifra che era stata stimata dopo l’alluvione di Firenze nel 1966 – commenta Casagli – Vuol dire che fino ad ora non è mai stato fatto».