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«Solitamente la corruzione è molto diffusa nei Paesi in via di sviluppo, mentre in quelli avanzati tende a diminuire in modo significativo. Non in Italia, che tra le nazioni sviluppate è la più corrotta al mondo, dietro soltanto alla Grecia». A dirlo è Alberto Vannucci, professore associato di Scienze politiche dell’Università di Pisa, che ha da poco dato alle stampe il suo Atlante della corruzione. La Corte dei Conti ha stimato in 60 miliardi di euro all’anno il costo economico di questa piaga nel Belpaese. Ma questo non è l’unico effetto negativo. «I danni non sono solo quelli quantificabili nell’immediato – prosegue il professore – Alcuni non sono semplici da stimare, ma sono anche più insidiosi. La corruzione, infatti, inquina la dimensione politica, favorisce una meritocrazia alla rovescia e produce effetti drammatici di lungo periodo perché riduce l’innovazione e lo sviluppo: se la chiave del successo economico non è l’innovazione ma la bustarella, è chiaro che le imprese investiranno meno sul primo aspetto, a favore del secondo». La corruzione poi diventa un freno allo sviluppo anche perché scoraggia gli investimenti esteri. Nell’ultimo rapporto della onlus Transparency International sulla percezione della corruzione in 180 paesi del mondo, l’Italia è 72esima, insieme alla Tunisia. Meglio piazzati di noi Paesi come Puerto Rico, Botswana e Mauritius, solo per fare alcuni esempi.

Incentivare chi denuncia
Nella lotta alla corruzione un aspetto fondamentale è quello del cosiddetto whistleblowing, parola inglese per indicare chi denuncia episodi di corruzione di cui è venuto a conoscenza all’interno di strutture pubbliche o private. Nel summit di Seoul del 2010, i G20 hanno indicato nella protezione del whistleblower una priorità assoluta nella lotta alla corruzione.
In Italia l’argomento è stato affrontato per la prima volta dall’art. 1 comma 51 della legge anticorruzione 190 del 2012 (mentre ad esempio negli Stati Uniti la prima legge risale al 1912). Il comma prevede che “il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei Conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia”. Poi la sua identità viene protetta, ma solo in parte. “Nell’ambito del procedimento disciplinare, l’identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l’identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato”. Per quanto riguarda la tutela concreta si prevede che l’adozione di misure discriminatorie venga “segnalata al Dipartimento della funzione pubblica, per i provvedimenti di competenza, dall’interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell’amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere”.

Anti-corruzione all’italiana
A pochi giorni dalla pubblicazione del provvedimento l’avvocato bolognese Michela Cocchi, il cui studio legale aderisce, come membro a livello avanzato al Patto Globale dell’Onu (iniziativa per la promozione della cittadinanza d’impresa, la lotta alla corruzione, la difesa dei diritti umani e dell’ambiente), ha organizzato un incontro dal titolo Whistleblowing, la collaborazione civica contro la corruzione. In quella sede è stato riconosciuto alla legge il merito di aver preso in esame la questione per la prima volta nell’ordinamento italiano. Ma sono state espresse critiche per il fatto che sono state previste tutele soltanto per i dipendenti pubblici, escludendo del tutto il settore privato e per il fatto che l’identità del segnalante non è tutelata in modo assoluto, perché è prevista la sua rivelazione “ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato”. Infine l’avvocato Cocchi e gli esperti che hanno preso parte a quel tavolo hanno sottolineato che sarebbe stato utile istituire un garante super partes in grado di raccogliere le segnalazioni e soprattutto erogare le sanzioni. Molto critico anche il professor Vannucci. «La legge in realtà potrebbe dimostrarsi una trappola per chi denuncia, perché i meccanismi di protezione sono generici e c’è il rischio che siano di fatto inesistenti». In una prima stesura erano stati previsti anche incentivi economici per chi denuncia, con le risorse eventualmente risparmiate grazie alla scoperta della corruzione. «Un incentivo positivo del genere sarebbe utile», dice Vannucci. L’assuefazione italiana nei confronti della corruzione è talmente diffusa che quando è venuta a galla la notizia di presunte tangenti pagate da Finmeccanica per ottenere una commessa militare in India, un leader politico ha criticato l’inchiesta sostenendo che «danneggiava l’Italia, perché in fin dei conti fanno tutti così» e un editorialista del Corriere della Sera ha ripreso la stessa discutibile argomentazione. Gli incentivi a denunciare per le persone oneste sono oggettivamente ancora pochi, sia dal punto di vista culturale che legislativo, e questo vale anche per i corrotti che eventualmente vorrebbero spifferare quello che sanno (da non confondere con i whistleblower, che invece sono persone oneste). «Negli Stati Uniti la magistratura può assicurare l’impunità al corrotto che denuncia – spiega Vannucci – In Italia era stato proposta una legge per garantire l’impunità a chi collabora, restituisce il maltolto e in caso di figure politiche rinuncia a partecipare alla vita pubblica. Ma non se ne è fatto nulla».

Il caso: Enrico Ceci
Denunciare è spesso molto difficile quando si ricoprono ruoli a nomina politica, per chi non è difeso da un contratto regolare o per chi fa parte di categorie dove lo spirito corporativo è molto forte (come tra le forze dell’ordine). Nel settore privato, poi, l’assenza di qualsiasi protezione si trasforma nell’impossibilità di segnalare, se non in forma anonima. Uno dei pochi whistleblower noti del settore privato è il giovane di Parma Enrico Ceci, che nel 2008, a 21 anni, ha denunciato una presunta attività di riciclaggio all’interno della filiale del Banco Desio in cui lavorava. Il cassiere, dopo essersi reso conto di una falla nel sistema informatico, che consentiva di nascondere la reale giacenza di valuta estera nei caveau delle filiali, ha prima segnalato l’anomalia al suo diretto superiore, poi, in assenza di risposte, è arrivato fino al presidente della banca, e da ultimo si è rivolto a Banca d’Italia e alla magistratura. In attesa che sulla vicenda arrivi un pronunciamento definitivo della magistratura (mentre andiamo in stampa, è prevista a Roma l’udienza preliminare per alcuni manager accusati di riciclaggio, ndr), Ceci è stato licenziato perché la banca gli ha addebitato alcuni comportamenti scorretti. Il cassiere, che ritiene di essere stato cacciato per la sua denuncia, ha impugnato il licenziamento, ma un giudice del lavoro del Tribunale di Parma gli ha dato torto e ora è in attesa dell’appello, che si terrà a luglio. La sua vicenda sembra un monito per chiunque voglia percorrere la stessa strada. E non stupisce che l’ex dipendente di banca giudichi in modo negativo la nuova legge anticorruzione, che non ha introdotto alcuna protezione per quelli come lui: «è un passo indietro ed è piena di trappole per chi denuncia».

Prevenire conviene
A livello internazionale la strada che si sta battendo per contrastare la corruzione è anche quella di spingere le aziende a dotarsi di meccanismi interni di governance tali da prevenire questi fenomeni, che una volta scoperti rischiano di aver effetti devastanti per le aziende coinvolte, in termini di immagine e di contraccolpi economici. L’avvocato Cocchi, che tra l’altro siede permanentemente come consultation invitee all’Oecd (Organisation for Economic Cooperation and Development) Working Group on Bribery in International Business Transactions di Parigi, è convinta della bontà di questo approccio. «La soluzione non può essere semplice e coinvolge vari fronti. L’enfasi maggiore va posta sulla prevenzione e, in particolare, sull’efficacia ed efficienza dei meccanismi di controllo interni alle organizzazioni, siano queste pubbliche amministrazioni o soggetti privati. La governance può diventare un catalizzatore contro le pratiche corruttive».

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