Il 2011 è stato un anno deludente per il sistema fieristico italiano, e i primi dati consuntivi del 2012 confermano il trend negativo. I poli fieristici sono in un momento difficile, al culmine di un periodo di sofferenza iniziato nel 2008, quando i ricavi aggregati hanno cominciato a calare, passando da 728 milioni ai 650 milioni del 2011 (-10%). Secondo i dati di Edifis Intelligence, nei nove principali centri fieristici del nostro Paese i dati di affluenza e spazi espositivi – disponibili solo fino al 2011 – esprimono un chiaro trend in discesa: 84mila espositori hanno popolato gli eventi, a fronte dei 90mila nel 2010; e i metri quadri espositivi acquistati sono sta 4.78 milioni contro i 5 del 2010. Unico dato positivo in un mare di segnali negativi è il fatturato, cresciuto di 7 milioni rispetto al 2010 (659 milioni complessivi).
Ma il segnale forse più preoccupante della cattiva salute del sistema fieristico tricolore, è l’altissimo numero di eventi cancellati, trasferiti o cessati dopo la prima edizione. In quattro anni e mezzo hanno conosciuto questo destino 85 nuove mostre su 86, che per la vitalità del settore equivale a un elettrocardiogramma piatto. Non sono mancati episodi come eventi annunciati e pubblicizzati, poi mai realizzati a causa di analisi di mercato sbagliate e scarso confronto con gli operatori dei vari settori.
Questi problemi sono naturalmente legati al periodo di recessione generale, ma non dimentichiamo che stiamo parlando di eventi che dovrebbero fungere da vetrina e impulso per il tessuto economico, all’avanguardia per lungimiranza e innovazione. Quindi forse le cause sono da ricercare anche e soprattutto nel sistema fieristico stesso. Una cosa infatti è certa, rilevata da più parti: le fiere sono tante, forse troppe e soprattutto non coordinate tra loro. Un business imponente che coinvolge oltre 2mila addetti e registra un fatturato di 1 miliardo di euro circa, senza contare l’indotto diretto. Numeri buoni a prima vista, ma che potrebbero e dovrebbero essere di gran lunga migliori.
Anche in questo contesto, un termine di paragone positivo è sicuramente la Germania: dal suo sistema fieristico passa il 24% delle esportazioni tedesche, mentre da quello italiano passa solo il 15% del totale. L’invidiabile razionalizzazione teutonica si comprende osservando, assieme a questo dato, che in Germania i poli fieristici sono 16, di cui 6 strategici, a fronte delle 64 fiere italiane. Bisogna poi aggiungere che il sistema degli expo tedeschi gode di un finanziamento pubblico di circa 50 milioni all’anno, che paiono ben investiti considerando che si contano ben quattro fiere tedesche tra le prime sei al mondo: Hannover, Francoforte, Colonia e Dusseldorf.
Certo, in questa classifica anche nel nostro paese non mancano le fiere strategiche. Milano è al terzo posto nella classifica 2011 delle fiere mondiali per metri quadri di esposizione, e Bologna è al tredicesimo davanti a quella di Madrid e Shangai. Altri poli fieristici italiani di rilievo internazionale sono, nell’ordine, quelli di Verona, Rimini, Roma, Parma, Genova, Vicenza e Bari. Ora, però, se è vero che le prime cinque fiere che abbiamo menzioanto fatturano da sole il 70% dell’intero settore, che importanza strategica hanno le restanti fiere? Scarsa o nulla è la risposta, forse sin troppo semplice.
In Emilia Romagna il settore fieristico è privilegiato rispetto a quello di altre regioni d’Italia. La posizione al centro della pianura Padana aiuta molto, ma un buon lavoro è stato fatto anche a livello di programmazione. Nonostante ciò, anche qui i segnali non sono più tanto incoraggianti e i problemi che affliggono il settore sono i medesimi del sistema fieristico nazionale: troppe fiere, eventi-fotocopia, scarsa cooperazione.
I poli fieristici regionali sono nove: Bologna, Ferrara, Forlì, Cesena, Rimini, Modena, Reggio Emilia, Parma e Piacenza. Quasi ogni fiera lavora e progetta per conto proprio, tranne BolognaFiere che controlla anche i poli di Modena e Ferrara.
Proprio la Spa bolognese ha chiuso il 2012 in sostanziale pareggio grazie ai ricavi ottenuti dalle attività gestite all’estero che hanno fruttato 25 milioni di euro, e corrispondono al 25% del fatturato complessivo di circa 100 milioni di euro: di questi tempi, un successo. Le fiere di Bologna inoltre si preparano ad un importante restyling del quartiere, dopo aver avuto il via libera dal Comune per l’acquisizione di 20mila metri quadrati di nuove aree, e aver anche ottenuto la progettazione di importanti opere infrastrutturali, come il servizio metropolitano ferroviario per collegare fiera e stazione, e il sistema People Mover per unire stazione e aeroporto.
Approfittando della parentesi politica del governo tecnico, che aveva messo in cantiere l’accorpamento delle province, anche alcuni enti fieristici hanno imbastito ipotesi di fusione. Per mesi in questo 2012 si sono susseguiti incontri e riunioni, anche con la mediazione della Regione, per accorpare le piccole fiere di Cesena e Forlì al colosso di Rimini, ma fino a ora non è stato ottenuto alcun risultato concreto: le fiere romagnole continueranno ognuna per la propria strada ad affrontare le tempeste del mercato.
L’idea di accorpamento per le fiere dell’alta Emilia – Piacenza, Parma e Reggio Emilia – non è mai andata invece molto al di là di qualche dichiarazione possibilistica. Piacenza sta lavorando per attrarre eventi satellite dall’Expo 2015 e le prospettive sono buone. A Reggio Emilia la società Fiere versa in grave crisi di liquidità e da anni non ospita più un appuntamento di respiro internazionale. Tiene duro Parma, con il suo obiettivo di diventare la capitale degli appuntamenti gastronomici: con un area esposizioni completamente rinnovata nel 2011 e un 2012 chiuso con ricavi per 32,4 milioni di euro, avrebbe potuto ergersi alla guida delle fiere dell’area vasta Emilia Nord, ma una vera trattativa non è mai iniziata e la morte in culla della riforma delle province ha fatto il resto.
Si continua così, ognuno per sé e l’Euro per tutti. Ma per quanto ancora?