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«Mentre le vendite dei libri della trilogia di E. L. James aumentano, in Italia continua a crescere il numero dei femminicidi. Non sto suggerendo che vi sia un legame tra questi due dati, ma mi chiedo come posso spiegare alla mamma di Antonella – una ragazza di 21 anni uccisa dal suo compagno, ndr – che il caso editoriale dell’anno parla proprio di violenza in un rapporto di coppia». Questo lo scrupolo sulla contiguità di certo erotismo e violenza che ci confessa Alessandra Campani, una delle fondatrici dell’associazione Nondasola di Reggio Emilia, che si occupa di sostenere le donne vittime di abusi. Il problema, secondo Alessandra, non è tanto il successo della trilogia ma l’immaginario che porta con sé: «Dal desiderio di sottomissione che emerge da quelle pagine – spiega – può derivare un ragionamento pericoloso: “Se a loro piace, se sono loro a sceglierlo, perché dovremmo stigmatizzare la violenza?”».
Anche senza arrivare a definire il porno “un genocidio culturale”, come fece la femminista Andrea Dworkin negli anni ‘80, in molti evidenziano il fatto che nella pornografia la donna sia sottomessa al desiderio maschile, umiliata, degradata a cosa. Una visione che scivolerebbe poi anche in molti altri ambiti della nostra società: è anche attraverso l’hard che si viene inconsciamente educati a vedere pezzi di corpi e non persone. “Il porno è violento per natura – ha scritto Marco Mancassola di recente su Pubblico – perché non accetta che oltre all’anatomia dei corpi vi sia una storia”. E se possiamo suppore che un adulto abbia strumenti culturali ed esperienza per comprendere che la rappresentazione hard del sesso non è reale (la voglia soddisfatta just in time, le acrobazie che sfidano le leggi della fisica), lo stesso non si può dire dei più giovani. «Molti adolescenti, ragazzi e ragazze, costruiscono il loro desiderio attraverso la pornografia – racconta la Campani, forte di anni di impegno nelle scuole per sensibilizzare gli adolescenti alle tematiche di genere – Così facendo, però, si creano un immaginario distorto, nel quale è normale che l’uomo possegga la donna senza mai trovare resistenza, e finiscono per considerare normale anche il voler riprodurre queste dinamiche nelle proprie vite». A normalizzare questa visione ha contribuito anche il circo mediatico, per esempio con pubblicità in cui i corpi sono macchine luccicanti, oggetti desiderabili proprio come ciò che cercano di vendere. Nulla di male, secondo molti, se non fosse per il messaggio nascosto dietro la patina glamour. “Il problema non è che le donne siano ritratte in maniera sexy – scrive Erin Hatton – ma che siano rappresentate come oggetti passivi per il desiderio sessuale di qualcun altro”. Dagli anni in cui veniva nascosto al mondo esterno, costretto nei rigidi ruoli di moglie e madre, il corpo delle donne ha saturato ogni spazio, arrivando all’estremo opposto, trasformato – secondo un celebre documentario di Lorella Zanardo – in un burqa di carne. Un’ambivalenza pericolosa, vissuta sulla propria pelle già dalle femministe negli anni ’70: «Né madonne, né puttane, si diceva allora – ricorda la Campani – Sono felice che vi sia la massima libertà sessuale, ma se tutto continua a veicolare un’unica immagine di mascolinità e femminilità, allora è la nostra stessa libertà di essere ciò che vogliamo a essere limitata».
E se si provasse ad allargare l’immaginario del desiderio, partendo dalla pornografia? Diretto da uomini per altri uomini, il porno tradizionale ha sempre ignorato le sfumature. E non è un caso che, proprio ora che quell’estetica è tracimata anche in tv e nella pubblicità, molti stiano esplorando nuove strade per la pornografia. Il porno per donne realizzato da altre donne del Cambridge Women Pornography Cooperative, il filone del cuddle porn inaugurato dal regista Travis Mathews con I want your love, il progetto My Sex del collettivo italiano Le Ragazze del Porno e i Dirty Diaries svedesi, dalla forte impronta politica, sono solo alcuni degli esempi di erotismo messo in scena da persone stanche di vedere il desiderio raccontato nell’ennesimo film porno in cui – per dirla con l’attivista della post-pornografia Slavina – «l’uomo è cacciatore e non deve chiedere mai, la donna accoglie e si lascia guidare». Romana, trasferitasi da anni a Barcellona, ed esponente del collettivo Le Ragazze del Porno, è lei a introdurci nel mondo della post-pornografia: «Partire dallo spostamento del punto di vista – spiega Slavina – è un primo passaggio verso la creazione di immaginari non conformi, che includano quante più varianti possibili della sessualità». E prosegue: «Secondo Marisol Salanova, il post-porno è un movimento artistico che propone la fruizione di rappresentazioni alternative del corpo, elaborando un immaginario nel quale abbiano posto le sessualità periferiche e dissidenti. Io direi di più: qualsiasi tipo di materiale pornografico serve a far proliferare immaginari sessuali, facendo posto anche a desideri e pratiche perverse».
Nella post-pornografia non c’è un ripetersi di stereotipi e meccaniche più o meno tranquillizzanti: «Si tratta – spiega Slavina – di sfidare se stessi sul terreno della consapevolezza di sé. Cos’è che ci eccita? Cosa ci disturba? E dov’è il confine?». Non è difficile intuire come dietro tutto ciò si celi anche un importante discorso politico. «Mentre il porno ha una finalità esclusivamente masturbatoria, nella post-pornografia sono in gioco anche elementi legati alla riflessione – continua Slavina – La repressione della sessualità è un’articolazione fondamentale del controllo sociale, e il cambiamento deve passare per le politiche del corpo». Lei vive da anni in Spagna, dove la realtà (neanche a dirlo) è un po’ diversa rispetto a quella italiana: «Mi sembra che nel nostro Paese ci sia una vera e propria sessuofobia, che passa anche per il controllo del corpo femminile. Il conformismo e l’ansia di apparire hanno tolto a uomini e donne la gioia di essere se stessi, innescando una spirale di autocensure sottili e pervasive».
Chi pensa a film e immagini dove la verbosità del messaggio spinga il sesso in secondo piano, però, è fuori strada: la post-pornografia eccita, ma la sua portata non si esaurisce nel tempo sufficiente a un po’ di autoerotismo. Valgano come esempi i dodici cortometraggi di Dirty diaries. In principio fu Mia Engberg con Come together, un film dove lei e altre donne si masturbavano riprese dalla videocamera di un telefonino. Proiettate in concorso allo Stockholm Film festival, le immagini provocarono reazioni forti: «Le risposte furono deprimenti, a volte perfino aggressive – ricorda Åsa Sandzén, che di Dirty Diaries è la produttrice – “Perché queste donne sono così brutte?”, “Perché non si truccano?”. Queste reazioni hanno convinto la Engberg a prestare la sua videocamera perché altre donne realizzassero i loro corti dando spazio alle proprie preferenze sessuali: i Dirty Diaries nascono così».
Ma come si è passati dalle battaglie legali contro la pornografia all’hard femminista? «Se le donne non trovano degradanti le immagini che questi film danno di loro, chi ha il diritto di accusarle di non rispettare se stesse o di promuovere la violenza? – commenta la Sandzén – È impossibile cambiare l’immagine della sessualità della donna, se sono le immagini sessuali in sé a essere tabù». Sorpresa, dunque: è (anche) il porno a poter cambiare le cose. «Rivoluzionare lo spazio dell’intimità significa ripensare in maniera globale le relazioni – conclude Slavina – I nuovi immaginari sessuali che veicola la post-pornografia possono aiutare a inventare nuove forme di cooperazione, basate più sul rispetto delle differenze, che sulla competizione e lo sfruttamento». In altre parole: se un altro sesso è possibile, perché non un altro mondo?