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La mannaia della Legge di stabilità ha rischiato di abbattersi sul terzo settore, con misure che si sarebbero certamente tradotte in una riduzione di donazioni da parte di privati e imprese – il cui volume è peraltro in costante calo sin dall’inizio della crisi economica. La macchina della solidarietà, che secondo un censimento Istat-Cnel del 2008 vale 40 miliardi di euro, rischia di restare senza carburante e non essere più in grado di ricoprire il ruolo che ha gradualmente assunto nella nostra società, sopperendo alle debolezze di investimento del pubblico o del privato nei più svariati ambiti (sanità, servizi sociali, cultura, ambiente, etc). Il terzo settore si trova oggi a dover fare fronte a una consistente riduzione delle donazioni (4 associazioni su 5 la dichiarano nel 2011), e non si può certo escludere che il Governo trovi modo di compensare o riproporre la franchigia di 250 euro per le erogazioni e il tetto di 3mila euro sulle detrazioni, bocciate dalla Commissione finanze. Ci attende la lunga notte del Terzo settore? Forse no: la collaborazione tra mondo profit e mondo no profit rivela opportunità inedite.
Questa si che è un’impresa!
Per un’azienda fare del bene significa concretamente, prima di tutto, risparmiare in tasse. Nulla di scandaloso e nessuna ipocrisia: l’intento del legislatore al riguardo è esattamente quello di creare un meccanismo virtuoso di incentivo alla solidarietà. Così un’impresa che decidesse di fare erogazioni liberali potrebbe recuperare circa il 19% della somma donata, con una serie di variabili legate all’inquadramento giuridico dell’impresa e all’opzione scelta dall’associazione di volontariato. E, come abbiamo visto, alle scelte economico-finanziarie del Governo. Ma se le donazioni si traducessero in investimenti? Sono in molti a essere convinti dell’importanza della collaborazione tra imprese e no profit per le sfide glocali che ci propone il futuro, al punto che per favorire e promuovere progetti che coniugano business e solidarietà in senso lato si organizzano fiere, si sottoscrivono protocolli e nascono specifiche figure professionali. Dal dire al fare è il salone italiano dedicato alla Responsabilità sociale d’impresa e ha celebrato quest’anno l’ottava edizione coinvolgendo 70 organizzazioni tra profit e no profit, per un totale di circa 3mila presenze. Ospitato negli spazi dell’Università Bocconi si è concluso con un position paper nel quale le imprese aderenti hanno riconosciuto e condiviso l’importanza e l’urgenza di lavorare per il proprio successo ma anche per il bene comune, conciliando i propri interessi con l’attenzione all’ambiente e al sociale. Del resto, le opportunità di business legate alla sfida dello sviluppo sostenibile sono stimate in 6,2 trilioni di dollari, circa 5mila miliardi di euro (WBCSD, 2010). A tal riguardo, l’avvocato bolognese Michela Cocchi, che ha di recente riunito attorno a un tavolo una serie di soggetti per discutere di questi temi nel settore moda, ci dice che «il termine Responsabilità sociale d’Impresa è ormai superato. Oggi è più opportuno e significativo parlare di creazione di valore condiviso». Sulla strada della possibilità di coniugare diritti umani e business, bisogna sgombrare però il campo da alcuni dubbi: «il primo dei diritti umani è la proprietà privata e ambiente, comunità e diritti sono fattori economici a prescindere dalla buona volontà», chiarisce Cocchi. E prosegue: «Come condiviso a livello mondiale attorno ai principi del Global Compact, la sostenibilità ambientale e sociale sono leva di profittabilità e competitività nel lungo periodo». L’idea è ambiziosa ma, conclude l’avvocato, «la stessa distinzione tra profit e no profit potrebbe essere superata perché quando un’impresa fa bene, fa bene a se stessa e alla comunità». Si può stimare in termini economici questa bontà? A gennaio 2013, partirà il primo corso di executive education in Filantropia strategica per formare la prima generazione di philanthropy advisors, autentici specialisti di strategie d’intervento per lo sviluppo del terzo settore. «Non è un sistema per fare guadagni, ma un’integrazione culturale di cui ha bisogno chi vuole occuparsi di filantropia», ha spiegato il presidente della Fondazione Lang Italia, Tiziano Tazzi in occasione della conferenza stampa di presentazione del corso. «Oggi – ha proseguito – stanno nascendo unità di filantropia in quasi tutte le banche e le istituzioni finanziarie. Per evitare che la filantropia sia gestita con criteri esclusivamente finanziari, è necessario studiarla e affrontarla con competenze specifiche per il settore».
Il no profit non sta a guardare
Ma il terzo settore non sta certo con le mani in mano ad aspettare l’abbraccio delle imprese, anzi. A un primo livello bisogna dire che Onlus, Ong e associazioni di varia natura studiano e propongono sempre più spesso iniziative di solidarietà specificatamente indirizzate alle aziende: pacchetti di beneficienza a costo fisso e obiettivi chiari, predefiniti, precisi. L’Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) in questo momento ha in piedi un programma benefico rivolto alle piccole e medie imprese italiane, che con una donazione di 5mila euro l’anno possono consentire all’agenzia dell’Onu di acquistare 20 kit di sopravvivenza, 200 coperte e 15 tende. Ma volendo andare oltre sono parecchi i casi di successo di rapporto tra una comunità e il suo tessuto economico, mediato da associazioni di terzo settore. Questa è l’esperienza che ci racconta per esempio il dottor Avanzini, presidente del GrAdE (Gruppo Amici dell’Ematologia) di Reggio Emilia: «Un’associazione come la nostra che ha dato dimostrazione di affidabilità, anche con progetti di grande impatto sociale (attualmente è in costruzione il nuovo centro oncoematologico del capoluogo reggiano, ndr), stimola maggiormente le imprese ad aderire. Capita spesso che un’azienda non si limiti a una collaborazione occasionale ma diventi compagna di viaggio, mantenendo e investendo con continuità nella collaborazione. Lavorando insieme ci si conosce, si instaura un legame, si apprezza quanto ogni soggetto investa in una data attività e questo non fa altro che incrementare il rapporto di stima e condivisione. In questo senso, possiamo certamente dire che per noi la collaborazione con le imprese va da sempre al di là della semplice raccolta di denaro».
Solidarietà, un affare per tutti
Con l’obiettivo di ottimizzare energie e sinergie, sono stati creati i Csv (Centri di Servizi al Volontariato), che operano per lo più a livello provinciale e hanno la funzione di raccordo e indirizzo tra le associazioni e il tessuto economico e industriale, operando al fianco di enti pubblici e rappresentanze imprenditoriali. È Gilberto Bagnoli, coordinatore del Csv dell’Emilia Romagna, a chiarirci quale sia lo stato dell’arte di questo rapporto: «Non esistono dati specifici, ma è certo che ci sia stato un calo delle donazioni. Tuttavia, proprio nel corso di questa crisi, temi come la Responsabilità sociale delle imprese, il welfare aziendale, i rapporti con la comunità e il territorio, si stanno sempre più imponendo all’attenzione dei soggetti economici. Il recente terremoto in Emilia ha dimostrato l’efficacia di collaborazioni tra attori istituzionali, socio-economici e terzo settore facendo emergere impegno solidale e sensibilità etica, ma anche importanti risultati». Ma questa è la norma? «Generalmente sono le associazioni ad assumere un ruolo attivo e propositivo nei confronti delle imprese – racconta Bagnoli – Perché va sottolineato che, pur in presenza di un aumento di imprenditori sensibili, salvo rari casi, pare ancora prevalente un approccio filantropico al no profit, rispetto alla logica auspicabile secondo cui ogni soggetto beneficia della collaborazione strutturata su obiettivi e attività condivisi di lungo periodo e di impatto per la comunità. Inoltre, anche le aziende più sensibili e avanzate nell’ambito della responsabilità sociale d’impresa, privilegiano nella maggior parte dei casi iniziative e progetti interni, di welfare aziendale, e non attività in partenariato con il terzo settore». A ogni modo, comunque si guardi la cosa, la solidarietà sembra un affare. Forse l’unico affare in cui ci guadagnano tutti davvero.