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Tra micro e macro, piccoli segni e installazioni monumentali, Tamara Ferioli racconta il suo mondo: bianco, essenziale ed estremamente poetico. Vincitrice del premio “Ceres 4art” 2011, sta preparando diverse mostre, in Italia, a Miami e a Singapore.

Nel catalogo della tua ultima mostra personale (Vanillaedizioni, 2011), Francesca Alfano Miglietti individua una dimensione romanzesca per il tuo lavoro. Come ti poni in relazione al tema del racconto? Arte e parola?
Le icone hanno un grande potere sulla visione, per cui di fronte a un’immagine è automatico cercare una collocazione, un riferimento, in un gioco di rimandi e relazioni. Un po’ come le parole che prese singolarmente hanno un significato, ma inserite in una frase perdono la loro individualità e diventano parte di qualcosa di più articolato. Così, singoli elementi che hanno con me un rapporto intimo e privato, all’interno dell’opera assumono nuova vita e significati. Più articolati, in quanto collocati tra altre icone a loro naturalmente aliene, costretti a relazionarsi sulla superficie. E più liberi, in quanto disposti a nuove associazioni legate alle profondità dello sguardo e alle capacità linguistiche e cognitive di coloro che guarderanno. Ogni oggetto rappresentato ha in sé un’alchimia, un dualismo che si fa metafora a seconda del contesto: ora aiutante, presenza rassicurante; ora antagonista, presenza perturbante. Il mio lavoro è un continuo oscillare tra la luce e la tenebra, il giorno e la notte. Un amore proibito per la vertigine.
La tua ricerca si esplica attraverso diversi linguaggi, dall’intimità del disegno alla monumentalità dell’installazione ambientale. Come ti muovi attraverso differenti media?
Ogni esperienza ha un suo peso specifico, un suo alfabeto olfattivo, e di conseguenza il mezzo adatto per raccontarla. Dipende dall’empatia. Così la graffiante leggerezza delle matite gioca idealmente con la pesantezza dei volumi enciclopedici o dei tronchi d’albero. È la magia dell’arte, unica disciplina che può permettersi di trascendere significato e significante per inventare nuove relazioni.
Spesso le tue installazioni hanno carattere site-specific. Quanto incide il carattere del luogo nella realizzazione dell’opera?
È molto importante. In certi casi il luogo determina l’opera più di quanto l’opera il luogo. Mi piace confrontarmi con lo spazio e cercare armonia tra contenitore e contenuto. Lasciarmi suggestionare dall’ambiente per poterne trovare il punto di connessione con l’opera in una soluzione di continuità. Senza fratture. Senza cornice.
Nell’opera di copertina (Idola, 2011) utilizzi libri e tronchi, sassi e chiavistelli. Associ un significato particolare a questi elementi?
Idola è essenzialmente la distruzione degli idola (persuasioni) con altre persuasioni (idola). Ovvero il procedere dell’umano da una persuasione all’altra. Il pensiero presuntuoso che fa di ogni persuasione definizione e dogma, per poi crollare di fronte alla prossima persuasione. Il rapporto tra fede e oggetto fisico o metafisico su cui indirizzare questo sentimento. Sono sempre stata affascinata dai materiali semplici. Dalla dignità austera che può avere un sasso. O dalla timidezza di un ramo. Da bambina ho sempre preferito gli oggetti del bosco o del fiume vicino a casa, piuttosto che i giocattoli convenzionali. Custodivo segreti che avevano la forma di una foglia, o di un insetto morto, secco. La possibilità di renderli protagonisti anche delle mie narrazioni iconografiche è stata una naturale conseguenza.
All’Accademia hai studiato pittura, ma il colore è stato presto accantonato…
Il bianco è la superficie su cui si scrive e disegna. Almeno nella maggioranza dei casi. È l’unico colore capace di farsi da parte per essere mezzo di altro. Ogni colore ha un suo egoismo espressivo, mentre il bianco è incondizionatamente altruista. Uno stato liminare, sospeso fra due momenti dell’essere. Attimi che cerco di congelare. Bianco protagonista e non comprimario. Ho iniziato nel caos, facendo disegni iperrealisti e sperimentando qualsiasi tecnica e colore, alla ricerca del giusto equilibrio. Per poi ricominciare. Tabula rasa. Volevo sezionare le mie emozioni, togliendo qualsiasi elemento decorativo e inutile. Ho cominciato a sentirmi più leggera e serena, come se avessi trovato la mia essenza. C’è un aneddoto che mi aveva colpito molto. Riguarda Apollonio di Tiana, che fu pari a Gesù, prima di Gesù. Un giorno, vedendo un ragazzo bere da una fonte con le mani, gettò via la sua tazza. Perché capì che non era necessaria.
Nei disegni inserisci spesso alcune ciocche dei tuoi capelli. Che importanza assume l’elemento autobiografico nel tuo lavoro?
Nei disegni mi nascondo svelandomi. Le figure sono nude e i volti celati da false maschere. I capelli sono identità. Io sono dentro quella donna, come sono dentro a quell’albero, come sono dentro a quella formica, che è un disturbo che ho in quel momento; o dentro quel sasso, che mi tiene a terra e non mi fa salire. Sono tutte parti mie, immaginate e ingigantite come nei sogni. Il loro suono è un fischio bianco.
I tempi dell’arte?
L’arte è qualcosa di cui si parla senza sapere di cosa si sta parlando. Qualcosa in cui l’azione e il concetto sono andati in direzioni opposte.
Dove potremo vedere le tue opere?
Fino al 7 ottobre al Museo Civico di Bassano del Grappa, poi al Pastificio Cerere di Roma, in dicembre alla Galleria L.I.B.R.A. di Catania e, per chi ama i lunghi viaggi, a Scope Miami 2012 e ad Art Stage Singapore (ArtSS13), nello stand di Officine dell’Immagine. Sto inoltre lavorando a una Moleskine special edition, che sarà distribuita a partire da dicembre.
E se non fossi un’artista?
Sarei un’esploratrice disorientata.