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“Detesto quando di Pasolini si dice che era scomodo, come se fosse un divano”. Tutto l’inchiostro versato per raccontarlo non hanno mai catturato del tutto la figura di un personaggio sempre irrimediabilmente altro, il cui fantasma continua ad aleggiare – miraggio inarrivabile, punto di non ritorno – sull’intero panorama culturale italiano. Di quel fantasma sono impregnate anche le pagine di Qualcosa di scritto, il romanzo di Emanuele Trevi dal quale è tratta la citazione iniziale: uscito a vent’anni esatti dal Pasolini postumo di Petrolio, il libro prende le mosse da quelle pagine dense come vortici e ne tenta una nuova lettura, che non ha mancato di far infuriare la critica pasoliniana ufficiale. Ma Qualcosa di scritto non è solo un saggio letterario: è anche un’autobiografia, con i ricordi dell’autore sul suo arrivo negli corridoi del Fondo Pier Paolo Pasolini dove regnava Laura Betti, l’attrice resa immortala in Teorema e che viveva come suprema custode della sua memoria, dipinta da Trevi come una furiosa Erinni sprofondata nella sua sadica follia. Al telefono, Trevi soppesa le parole in lunghe pause, crea frasi in cui termini psicanalitici e riferimenti colti trovano casa senza alcun bisogno di essere sfoggiate. L’intervista come genere letterario a sé: l’insegnamento di Pasolini non deve essere sfuggito nemmeno in questo caso.
Nel suo libro scrive: “Possiamo guardare un’enorme quantità di opere d’arte, ma solo un numero ristretto di queste ha il potere di colpirci”. Quali sono, per Lei, queste opere?
Fin da piccolo ho avuto una fortissima passione per i quadri, ma se ammiro l’arte senza doveri professionali so che mi parlano pochissime cose. Di recente ho visto una mostra – abbastanza deludente – di Vermeer a Roma, in un’apertura riservata alla stampa. Vi ho ritrovato La stradina, un’opera che avevo visto nel 1994 ad Amsterdam, alla quale avevo dedicato anche parte di un mio vecchio libro. Rivisto in condizioni privilegiate, ho vissuto nuovamente la stessa vibrazione di allora. Il resto della mostra mi ha dato un’emozione più intellettuale, meno profonda. Ma, del resto, le esperienze realmente profonde sono rare: accade lo stesso negli incontri con le persone.
Anche l’opera di Pasolini è stata capace di colpire tanto a fondo?
In realtà, fra tutti gli scrittori moderni, non ho mai apprezzato Pasolini in modo particolare. Anche con Petrolio, il mio rapporto è stato a ondate: la prima la racconto nel libro (Trevi lavorava al Fondo proprio nel periodo in cui il romanzo postumo di Pasolini fu pubblicato, ndr); poi, nel 2003, il lavoro teatrale fatto sul testo con Mario Martone mi ha fatto incuriosire; infine, c’è stato uno studio sistematico per Qualcosa di scritto. La folgorazione è arrivata nello scoprire le copie del manoscritto, vedere quel magma poco lineare, talmente pieno di riscritture da sembrare un vortice. Mi piacciono molto Teorema e il Pasolini tardo, la prosa giornalistica che ha nelle Lettere luterane e negli Scritti corsari. Sono molto avaro con Pasolini, e molto generoso con Petrolio.
Molti dei personaggi che nel romanzo si avvicinano a Petrolio sembrano avere una certa familiarità con la violenza e con la ritualità del sadomasochismo. È quella la chiave di accesso al testo?
Questa lettura ha molto infastidito la critica pasoliniana ufficiale, ma io sono convinto che per capire Petrolio debba esserci una qualche familiarità psicologica con la violenza. Persone come Laura Betti e come i due ragazzi bosniaci che venivano a fare ricerche al Fondo erano incapaci di leggere e comprendere quel testamento, eppure in quelle pagine c’era qualcosa che li richiamava alla realtà delle loro vite. Ci saranno certo altri livelli di lettura, ma io ho disegnato un mondo di persone disturbate alle quali quel libro parla in maniera reale. Si tratta di esistenza, non di cultura. La critica, del resto, ha sempre preso grossi abbagli su Petrolio: hanno parlato di grandi scene di sesso gay senza considerare che il protagonista a quel punto si era trasformato in una donna, e i riferimenti alle iniziazioni e ai Misteri Eleusini sono stati poco considerati. Del resto, è più facile speculare di complotti, indagini su Eni e capitoli scomparsi…
Nel libro liquida il giallo sul capitolo scomparso – il cui contenuto, secondo alcuni, potrebbe essere il vero movente dell’omicidio di Pasolini – come una pagliacciata. Ma cosa avrebbe potuto sapere Pasolini di così importante da costargli la vita?
Ha ragione Gianni Borgna, che dà ragione sia a me sia ai complottisti: negli anni ’70, se qualcuno pensava che tu sapessi equivaleva a sapere. Ma se davvero l’appunto 21 è stato rubato, perché il ladro non ha preso tutto il manoscritto? Come avrebbe fatto a capire che proprio quello fosse il capitolo incriminato? Piuttosto, avrebbe perso tutto il malloppo, per non correre rischi: 007 non farebbe una cazzata del genere. È vero che in altri capitoli Pasolini faceva riferimento all’appunto 21, ma quello fa parte di un gioco di finti rimandi di cui vive tutto Petrolio. Certo, tutto è possibile, ma è risaputo che Pasolini fosse pigro nelle sue ricerche, e che la sua documentazione sull’Eni fosse basata sugli articoli dell’epoca apparsi su L’Espresso. Perché non uccidere il giornalista, allora? La verità è che l’innamoramento per una teoria genera cecità. I gialli sono molto belli, gratificano chi li concepisce. Ma se esiste una verità, io non l’ho trovata.