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Dominio è una parola che sembra risuonare da un altro tempo: il tempo dei regni e degli imperi, delle guerre di conquista e delle colonie, dei nazionalismi e dei moti irredentisti. Una parola pressochè scomparsa dal vocabolario politico occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale, sostituita da consessi internazionali per la cooperazione, la collaborazione, la discussione pacifica tra i popoli e le nazioni. Ma nei fatti? Esistono ancora forme di dominio come reperti di un mondo che non c’è più, o indizi di un mondo che non c’è ancora?
Sono di questi giorni alcune notizie interessanti sotto questo profilo: la Regina Elisabetta II e il Regno Unito sono stati infatti bersaglio di dichiarazioni, non troppo diplomatiche, da parte dei capi di stato di due ex dominion.

La Regina Elisabetta, pur essendo un’istituzione fondamentale nella vita politica del Regno Unito, profondamente radicata nella sua storia, entro i confini del Commonwealth riveste (o dovrebbe rivestire, almeno sulla carta) quello che viene definito un ruolo puramente cerimoniale. Tutto questo si traduce nell’idea, invalsa nel mainstream, che tanto Elisabetta II quanto il suo Commonwealth delle nazioni siano qualcosa di quasi esclusivamente simbolico, fatti salvi gli aspetti commerciali.

Ma le recenti dichiarazioni del Primo Ministro giamaicano Portia Simpson Miller, e le reazioni nel Regno Unito, sembrano dire altro. «Amo la regina e penso sia una bellissima signora, ma il suo tempo è venuto»: elegante ed al tempo stesso categorica, la Miller ha così sintetizzato le aspirazioni della Giamaica, decisa a trasformarsi da Monarchia costituzionale a Repubblica, affrancandosi definitivamente dalla Regina. La Giamaica del 2012 non si sente più in alcun modo legata alla monarca inglese, che è formalmente il Capo di Stato dell’isola e, dal canto suo, il Regno Unito teme che l’intraprendente iniziativa giamaicana dia il via alla disintegrazione del Commonwealth, lascito istituzionale dell’immenso impero sul quale “non tramontava mai il sole” (come si usava dire appunto un secolo fa). Oggi il Commonwealth è una confederazione volontaria di Stati che furono soggetti all’impero britannico, il cui scopo principale è quello di mantenere un regime agevolato tra i membri in materia di scambi economici e commerciali, e di costituire una sorta di unione tra paesi che condividono un passato storico ed una vicinanza culturale. Si tratta quindi di un’organizzazione internazionale figlia di dinamiche e scenari politici appartenenti a un’epoca passata, per la quale l’interesse britannico non può che essere perlopiù nostalgico, piuttosto che legato a reali interessi attuali. Un caso paradigmatico in cui un retaggio passato, ancora legato al presente ma indubbiamente secondario rispetto agli attuali interessi di una potenza come l’Inghilterra, continua ad esercitare la propria influenza. Staremo a vedere dove condurrà la vicenda giamaicana.

Voliamo in Argentina, dove il Presidente, Cristina Fernandez de Kirchner, ha recentemente dichiarato: «Da parte del Regno Unito, avere ancora delle colonie nel ventunesimo secolo è un vero e proprio anacronismo». Il riferimento è ad una vicenda di circa trent’anni fa, quando Argentina e Regno Unito vennero ai ferri corti per il possesso delle Isole Falkland (Malvinas, in spagnolo), un arcipelago dell’Atlantico meridionale che conta 3000 abitanti in tutto, divisi su due isole piuttosto inospitali e perennemente flagellate dal tempestoso clima subantartico. Non esattamente un bottino per cui scatenare un conflitto quindi, ma è una guerra a tutti gli effetti, sebbene rapida ed agevolmente vinta dagli inglesi, quella che vide contrapporsi Argentina e Regno Unito nel 1982. La disputa verteva (e verte) sostanzialmente su una mera questione cronologica, a proposito di chi abbia per primo scoperto e colonizzato le isole (siamo a circa metà dell’800). L’interesse si è però ora riacceso: intorno a questi scogli sembra infatti che si trovi petrolio – parecchio per la verità – e l’annuncio di trivellazioni inglesi ha di fatto rilanciato la crisi, che sembrava ormai assestata, sullo status quo che qualifica le Falkland come Territorio d’oltremare britannico. Una disputa sorta più di 150 anni fa, per questioni di prestigio e di principio, ha quindi scatenato una guerra negli anni ’80 e ha ora riaperto una piccola crisi tra i due paesi, sebbene l’ipotesi di una nuova escalation militare sia estremamente improbabile.

Questa Regina Elisabetta e il suo Commonwealth non sono poi così innocui. E mentre il nostro mondo è in continuo cambiamento, la politica continua a funzionare su dinamiche costanti e logiche simili, se non identiche a quelle che tutti noi abbiamo appreso sui manuali di storia. Il concetto di sovranità (traduzione politologica del dominio), ragione stessa dell’esistenza degli Stati, è protagonista in diversa maniera in entrambe le controverse vicende che abbiamo preso ad esempio, ed è l’ostacolo principale ad altri progetti politici, tra più ambiziosi del nostro tempo. Le enormi difficoltà dell’attuale Unione Europea ne sono un esempio eclatante. Una vera evoluzione della comunità internazionale e del modo in cui gli Stati si rapportano tra di loro è ancora, ammesso che sia realizzabile, estremamente lontana.
Il termine dominio in ambito politico vi suona istintivamente anacronistico? Lo associate a un mondo lontano nel tempo, che avete incontrato solo sui manuali di storia? Bene. Preparatevi a cambiare idea. Meglio: a complicarla, in questo breve viaggio ai confini dell’ex-Impero britannico, oltre il gossip e il folklore