Per oltre un millennio, il nome Arduino è stato legato soltanto al marchese d’Ivrea che fu re d’Italia nell’XI secolo. Poi è arrivato Massimo Banzi, e Arduino è diventato l’appellativo della scheda elettronica più famosa al mondo, talmente semplice e versatile da poter essere utilizzata dai gadget fai-da-te ai router, dai lettori mp3 alle strumentazioni da laboratorio. La storia di questo raro esempio di creatività italiana capace di imporsi nel mercato tecnologico internazionale, nasce all’inizio degli anni 2000, quando il barbuto ingegnere monzese approda quasi per caso come docente all’ormai defunto Interaction Design Institute di Ivrea. E qui, Banzi si trova di fronte ad un problema squisitamente didattico: «Agli aspiranti designer insegnavamo un minimo di elettronica come strumento per prototipare – ci racconta – Ma ci siamo accorti che gli strumenti in uso fino ad allora erano costosi, vecchi ed estremamente complessi». Serviva, insomma, un circuito stampato semplice da produrre, da collegare e soprattutto da programmare, a cui potesse avvicinarsi anche chi non fosse specialista in informatica: «Volevo un sistema fabbricabile dalle persone per conto proprio, facile da programmare e compatibile con tutte le piattaforme».
Il primo elemento innovativo di Arduino sta proprio nella sua semplicità. L’intuizione di Banzi è che la tecnologia, per essere potente, non deve necessariamente essere accessibile solo a pochi eletti. «Arduino è di fatto un computer che sta in un taschino, con un processore simile a quello del vecchio Commodore 64, ma programmabile senza dover utilizzare linguaggi complessi e confusi – spiega il professore – Basta un’idea e in 20 minuti si può iniziare a lavorare».
Ma la vera rivoluzione introdotta da Arduino, più che tecnologica, è culturale. Quando, dopo pochi mesi, scuole di tutto il mondo cominciano a chiedere a Banzi e al suo team di produrre e di vendere dei piccoli lotti di schede, il gruppo decide di non mantenere i diritti d’autore del prodotto, ma di mettere progetti e schemi su Internet, a disposizione di chiunque. Un po’ come poco più di dieci anni prima aveva fatto Linus Torvalds con il suo sistema operativo Linux, ma per la prima volta nel campo dell’hardware. Un suicidio, secondo i canoni economici tradizionali. «Il nostro intento iniziale non era quello di fare soldi, perché eravamo tutti pagati dalle nostre scuole – prosegue l’ingegnere – Per questo abbiamo potuto cominciare lentamente, finché, nel 2006, ci siamo resi conto di essere arrivati a 10mila Arduino. Così abbiamo mantenuto il copyright del nome e abbiamo lasciato che altre piccole imprese costruissero e vendessero le schede, pagandoci i costi di gestione del progetto. Nel tempo questo contributo è diventato sufficiente per fondare un’azienda».
Il successo di Arduino è ormai inarrestabile. Dalla comunità degli artisti e dei designer, si diffonde a macchia d’olio sia nel crescente mercato dell’elettronica fai-da-te, sia in quello delle piccole imprese. E la scelta del modello open source fa sì che la comunità creatasi attorno a questo prodotto continui a migliorarlo e a scoprirne sempre nuove applicazioni. A tal punto che Massimo Banzi accetta di buon grado anche le inevitsbili versioni low cost cinesi: «Si è creato quello che noi definiamo l’ecosistema: aziende asiatiche che producono copie di Arduino a basso costo, ma che comunque contribuiscono ad espandere il mercato; altre che hanno creato schede di espansione compatibili; siti che vendono pezzi elettronici che consentono di lavorare anche ai non specialisti… E questo ha trascinato ulteriormente la comunità. Sempre più piccole aziende utilizzano la nostra piattaforma per fabbricare i loro prodotti. Due realtà, l’americana Makerbot e l’olandese Ultimaker, hanno costruito delle stampanti 3D che realizzano oggetti in plastica con Arduino al loro interno. Un’altra ha fabbricato un OpenPCR, una macchina per l’analisi del DNA. Sono prodotti che costano molto meno di quelli professionali e che, essendo open source, possono essere adattati o migliorati da chiunque. Per questo stanno avendo un grande successo, specialmente nei mercati in via di sviluppo». Anche condividendo le proprie idee, insomma, si può avere successo. E checchè se ne dica, nella nostra cara Italia non vincono sempre i furbetti…