Finalmente l’abolizione delle Province si farà. Anzi, no. è rimandata, almeno per ora. Al termine di mesi infuocati, in cui le dichiarazioni e le smentite si sono susseguite a tempo record, l’edizione quarta (o quinta?) della manovra-Tremonti (a seguito di riunioni ristrette ad Arcore, emendamenti delle opposizioni e dubbi dei mercati internazionali) corregge il tiro. Ci si era lasciati prima della pausa ferragostana con l’intenzione di cancellare le Province sotto i 300.000 abitanti o con un’estensione inferiore ai 3000 km quadrati (il che per la nostra regione avrebbe significato l’esclusione della sola Piacenza); ed invece il testo definitivo della manovra più travagliata degli ultimi anni ha stabilito l’eliminazione coatta di tutte le province italiane, ma tramite l’inserimento del provvedimento in Costituzione. Sembrerebbe l’ennesima procrastinazione di una proposta ormai sul banco da decenni, che pare non voler decollare mai. Tuttavia, va detto, il fronte dei favorevoli sembra questa volta essere piuttosto nutrito e compatto, e, a meno di incredibili ripensamenti e dietro-front dell’ultima ora, non dovrebbe essere difficile raggiungere il quorum dei due terzi necessario in entrambi i rami del Parlamento per cambiare il testo costituzionale. La proposta arriva dalla maggioranza, ma si sono da subito dette favorevoli anche le opposizioni, dal Pd all’Idv fino al Terzo Polo. Il Consiglio dei Ministri, l’8 settembre scorso, ha approvato un disegno di legge costituzionale, primo decisivo passo per l’iter parlamentare. Ora tutto dipende dalla tenuta del Governo, e dalla reale volontà di senatori e deputati.
Ma cerchiamo di capire cosa significherebbe esattamente questa eliminazione. Secondo uno studio dell’Istituto Bruno Leoni di Torino, tale provvedimento porterebbe nelle casse dello Stato circa 2 miliardi di euro. Mica bazzecole. Ovviamente le competenze passerebbero nelle mani delle Regioni, anzi delle aree vaste, nuovo organismo creato dalla manovra: in sostanza forme associative di Comuni che si occuperebbero delle funzioni di governo sotto il controllo delle Regioni, le quali invece dovrebbero definirne le funzioni, gli organi e la legislazione elettorale. Questo significherebbe anche uno spostamento dei dipendenti da un ente all’altro, in modo da mantenere le competenze senza perdere posti di lavoro. Ma, quali sono esattamente queste competenze? In base alla legge delega sul federalismo fiscale (42/2009), le Province si occupano attualmente dei seguenti settori: amministrazione generale, istruzione pubblica, trasporti, edilizia, gestione del territorio, tutela ambientale e mercato del lavoro. Dunque, con la loro soppressione, le spese per amministrazione e controllo dovrebbero essere eliminate del 100%, per un risparmio di 3 miliardi e 200 milioni di euro. A questa cifra andrebbe aggiunta quella dei veri e propri costi della politica (i gettoni di presenza di assessori e consiglieri, tanto per capirci) che si aggirerebbe sui 140 milioni ed infine 1 miliardo di euro che verrebbe dalle economie di scala. A tutto questo guadagno bisogna sottrarre esclusivamente il costo del personale, che chiaramente non può essere eliminato su due piedi, per un totale di poco più di 2 miliardi e 300 milioni di euro.
Facendo due conti fra entrate e uscite, dovrebbe esserci un attivo di 2 miliardi di euro. Si potrebbero, a ben vedere, recuperare all’incirca altri 6 miliardi; ma ciò significherebbe vendere edifici scolastici e strade, operazione questa che non pare essere all’ordine del giorno e che certamente comporterebbe rischi incalcolabili e vedrebbe la contrarietà di quasi tutta l’opinione pubblica.
La nostra Regione sembra porsi come traino della battaglia contro i cosiddetti costi della politica: è già stata presa la decisione, che si auspica verrà seguita anche altrove, di eliminare il vitalizio per tutti i consiglieri regionali a partire dal prossimo mandato. Se indubbiamente è questa una misura positiva, che intacca i privilegi della casta, l’eliminazione delle Province sul fronte di indennizzi e gettoni di presenza dovrebbe consentire all’erario di risparmiare circa 140 milioni di euro l’anno, non certo un’enormità in tempo di lacrime e sangue (o di lacrime e champagne, come qualcuno, ironicamente, ha scritto in questi mesi), ma tuttavia un buon inizio, che, sommato agli altri risparmi, come abbiamo visto, dovrebbe portare ai 2 miliardi di euro complessivi. Certo, i veri introiti arriverebbero da un’altra parte. Principalmente da quello che si dovrebbe recuperare sul fronte della spesa: il trend degli ultimi anni dice che le spese per l’acquisto di beni e servizi continuano a crescere, mentre al contrario calano (e anche drasticamente) gli investimenti in opere pubbliche. I dati inerenti il 2009 parlano di un calo di quasi il 30% rispetto all’anno precedente. La conclusione che si può trarre da questi numeri sembra essere una soltanto: le Province spendono praticamente tutto per mantenersi in vita, senza contribuire allo sviluppo. Ma nelle parole del vice Presidente Upi, Vincenzo Saitta scopriamo che «nel 2012 le risorse frenate dal patto di stabilità saranno pari addirittura a 2,1 miliardi di euro. Se si sbloccasero almeno il 10% di queste risorse potremmo fare ripartire gli investimenti».
Altri, assieme a lui, pongono sul tavolo legittimi dubbi sull’efficacia dell’abolizione disegnata dal ddl costituzionale. La Presidente della Provincia di Reggio Emilia Sonia Masini, per esempio, sottolinea che «si devono individuare nuovi ambiti ottimali senza dare la caccia a questo o a quell’ente e senza dimenticare che la stragrande maggioranza di dipendenti pubblici è fatta da persone serie e qualificate». Il Presidente della Provincia di Parma, Vincenzo Bernazzoli che, nel presentare un progetto di microcredito per i disoccupati e cassaintegrati, rileva: «Se fossero confermate le misure di cui si parla in questi giorni, è evidente che in futuro per gli enti locali sarebbe più difficile operare a tutela dei cittadini più bisognosi. E con l’abolizione delle Province e gli interventi sul bilancio delle Regioni di sicuro ne farebbero le spese, insieme a molte altre, iniziative come questa».
Le voci che si potrebbero consultare sono tante, ed anche se risulta persino banale concentrarsi sulle auto blu quando si parla dei costi della politica, resta tuttavia questo un buon indicatore per avere delle cifre su cui ragionare. A quanto emerge dallo studio effettuato un anno fa dal Ministero degli Interni, la spesa complessiva per auto blu-blu (quelle assegnate agli organi di governo di regioni e amministrazioni locali e ai vertici istituzionali di altri enti pubblici centrali e locali), auto blu (assegnate alla dirigenza apicale delle amministrazioni degli enti pubblici, delle amministrazioni regionali e locali e degli uffici di diretta collaborazione delle cariche politiche) e auto grigie (utilizzate per lo svolgimento delle funzioni e dei servizi dell’Ente, con esclusione delle autovetture per trasporti specifici e per uso speciale ) della sola Provincia di Bologna ammonta a 142.011 euro. Va precisato che, in questo caso, la Provincia ha fatto meglio del Comune e anche della Regione. Notevole anche il dato della Provincia di Parma, con una spesa nel 2010 pari a 270.602 euro; il numero più basso è quello fatto registrare dalla Provincia di Piacenza (ad onor del vero anche quella più piccola fra tutte) con 82.275 euro. è vero che il decreto firmato il 3 agosto 2011 dispone, già di per sé, una consistente diminuzione delle autovetture speciali, con una stima per il biennio 2012/2014 di un abbattimento dei costi, nelle sole pubbliche amministrazioni locali, di 660 milioni di euro. Tuttavia sarebbe interessante capire come questi numeri potrebbero variare in seguito all’eliminazione totale delle Province italiane.
Questo articolo è scritto tutto al condizionale e in termini ipotetici. Non è certo per paranoia o diffidenza, ma piuttosto perché la storia insegna che un conto sono le ipotesi, un altro sono i risultati effettivi. La storia ci dirà anche se tutti questi numeri troveranno una rispondenza nei fatti.