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Vedere un film, è già stato detto, equivale un po’ all’esperienza onirica, poiché avviene al buio (almeno dovrebbe), con i sensi e l’intelletto coinvolti ed il corpo immobile, davanti ad immagini che si susseguono secondo una concatenazione che ci suggestiona, così come nel sogno siamo noi i registi di una serie di flash che tentiamo a posteriori di collegare in una sola avventura.
Lo sapeva bene Hitchcock, che costringe il protagonista su una sedia a rotelle, con gamba ingessata e binocolo alla mano (La finestra sul cortile, 1954), oppure lo conduce in un incantesimo di pedinamento e vertigine senza scampo (La donna che visse due volte, 1958). Il regista inglese metteva grande impegno nel trasmettere a chi guarda la precisa dislocazione degli ambienti e dei pericoli, in modo che si potesse partecipare con tensione alla visione, limitati da un’impotenza fisica che è pari all’acutezza sensoriale di musica e rumori. Inoltre, costruiva spesso i momenti chiave in soggettiva, con la macchina da presa al posto degli occhi del personaggio, per un’immedesimazione assoluta e frustrante dello spettatore-voyeur. Come lui fecero Brian De Palma e Dario Argento.
Poi, The end: il risveglio.