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Artista piemontese attiva dalla metà degli anni ’90. Ricercatrice, accumulatrice e fashion addicted, coniuga passato e presente, offrendo ai rifiuti una seconda vita: dallo scarto all’opera d’arte

di Chiara Serri

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Novità e originalità sono parole ricorrenti nel linguaggio artistico contemporaneo, ai limiti della forzatura. Come convivono vecchio e nuovo nella tua ricerca?

Non credo esistano opere completamente nuove, ma vecchi progetti che a poco a poco si trasformano, assumendo una nuova identità, una nuova pelle. Si tratta di un processo di metamorfosi, lento e reiterato. Il nuovo trascina sempre con sé alcuni elementi del passato…

Nella tua mostra londinese, Second life, dai una seconda chance a materiali altrimenti destinati all’oblio. Qual è il percorso che trasforma lo scarto in opera d’arte?

Dal 1996 lavoro con materiali di scarto e mi occupo di riciclo creativo. Sono interessata al rifiuto, soprattutto al packaging: ha una vita brevissima e un valore che è apparentemente inferiore al contenuto, ma allo stesso tempo attrae e seduce il consumatore.

Pur utilizzando rifiuti non biodegradabili, la tematica ambientale sembra passare in secondo piano rispetto al recupero di un vissuto personale e collettivo sedimentato nel tempo…

Nelle mie opere esistono diversi livelli di lettura. Alla vocazione ambientale si associa certamente un aspetto più intimo, che attraverso lo scarto proveniente dalla mia quotidianità vuole dare voce alla società in cui viviamo.

La realizzazione delle tue opere coinvolge gesti che gravitano nell’universo femminile. Come ti muovi all’interno di questa definizione?

Nel mio lavoro non parlo di genere, ma sono interessata a gesti che ritengo archetipi di una cultura femminile. Mi piace recuperare queste azioni da un punto di vista processuale, come modalità operativa per la realizzazione dell’opera.

Nel lavoro di copertina lo scarto diventa elemento decorativo, tassello di un’installazione che a prima vista potrebbe sembrare realizzata con materiali preziosi. Un lavoro minuzioso che punta alla mimesi?

Sì, spesso preferisco non dichiarare immediatamente il materiale. Anzi: mi piace che il pubblico arrivi lentamente a scoprirlo. Non amo le rivoluzioni urlate, preferisco invece quelle silenziose, con azioni lente e ripetute… fino allo sfinimento!

Tra i tuoi soggetti, ci sono anche abiti e gioielli. Com’è nato il tuo interesse per la moda?

La moda è parte della nostra cultura: vitale e seducente. Nel mio lavoro trovo estremamente interessante lavorare su doppi binari: arte/moda, scarto/prezioso, immondizia/valore.

Ritornando alla mostra di Londra, come hai pensato gli allestimenti, in dialogo con la collezione permanente della Estorick Collection?

La collezione della Estorick è veramente eccezionale per cui, dopo averla visitata, ho cercato HGH di creare un dialogo diretto con alcuni lavori. Da Vuoti e pieni astratti di una testa (1912) di Umberto Boccioni è nata, ad esempio, una maschera che assembla sacchetti in polietilene e contenitori per detersivi da bucato. L’idea è quella di innescare un meccanismo attraverso il quale opere cronologicamente lontane possano vivere in maniera simbiotica.

A Londra ti sei confrontata con Umberto Boccioni, Medardo Rosso e Gino Severini, ma già in passato avevi lanciato ponti con altre opere e artisti. Pensiamo, ad esempio, alla figura della Venere classica e alla sua rilettura da parte di Pistoletto…

Con le mie Veneri ho voluto rivisitare il tema della bellezza. L’iconografia classica è un punto di partenza per ripensare pelle, copricapo e decori. Sicuramente la Venere degli stracci di Michelangelo è un’opera eccezionale con la quale è impossibile non confrontarsi…

Molti torinesi e non avranno avuto modo di vedere le tue Luci d’Artista. La città della Mole ti ha portato fortuna…

Sì, Torino è una città che porto nel cuore, anche se non vi ho mai vissuto. Nel 1998, attraverso un concorso per giovani artisti, sono stata invitata a pensare un sistema di luci natalizie per la città. Successivamente l’opera è stata riproposta anche in Germania e in Francia.

Le tappe fondamentali del tuo viaggio artistico? Quali guide e compagni di viaggio hai avuto?

Sicuramente la mostra più importante è stata quella allestita nel 1999 al Castello di Rivoli. Per l’occasione ho realizzato La Regina (opera di copertina, ndr), esposta in seguito anche a Nizza e Bordeaux. Poi sono state fondamentali la Galleria Alberto Peola di Torino, che mi ha dedicato due personali, e Claudia Gian Ferrari che ha sostenuto il mio lavoro e quello di molti giovani artisti. Il Museo del Novecento di Milano lo scorso anno le ha giustamente dedicato una bella mostra. I compagni di viaggio? I miei rifiuti… che non abbandono mai!

L’esperienza di Asilo Bianco?

È l’associazione che ho fondato con un gruppo di artisti sulle colline del Lago d’Orta. Un progetto di valorizzazione territoriale che utilizza l’arte contemporanea come elemento rigenerante: eventi culturali, formazione, messa in rete di energie e competenze, in dialogo con il luogo e la sua storia.

Progetti in cantiere? Cosa farai di ritorno da Londra?

Non appena tornata inizierò a lavorare alla mia prossima personale, nello spazio di Patrizia Pepe a Firenze. Realizzerò alcune opere site-specific dialogando con gli ambienti aziendali. Per la prima volta avrò occasione di toccare con mano il vero mondo della moda, non quello riciclato della Borghi…