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Nel vostro lavoro si riscontra spesso la sedimentazione di diversi oggetti. Qual è il criterio che guida la composizione? Quale significato assume l’ordine nella vostra ricerca?

Non esiste un criterio preciso che ci guidi nella realizzazione delle composizioni che mettiamo in scena. C’è piuttosto un’idea di base, che nasce da una specifica motivazione o da una sollecitazione visiva. Un percorso può iniziare sfogliando le pagine di una rivista oppure osservando l’angolo di una strada. Tutto il resto viene da esigenze di tipo compositivo, che hanno a che vedere con forme e colori, tra slancio istintuale e inconsapevolezza di ciò che si cerca. Ordine come bisogno di ordine interiore, desiderio di esternare, nel nostro caso tramite il lavoro artistico, una certa voglia di normalità.
Le vostre opere presentano una sottile ambiguità: da un lato registrano il degrado della società contemporanea, dall’altro elevano lo scarto a oggetto estetico, portandolo a nuova vita…
Questo tipo di riflessione è nato dalla contemplazione di una discarica. Ci siamo posti più volte la stessa domanda: perché preleviamo questi soggetti dalla sporcizia? Perché esercitano su di noi questo fascino? Perché tutto ciò che è degradato ci attira? La risposta è molto semplice: le cose abbandonate dall’uomo, svuotate della loro prima funzione o del significato originario, restano comunque oggetti estetici, caratterizzati da forme e colori. Proprio in quanto abbandonate, sono più facili all’approccio.
Vanitas e Memento mori: quale lettura per i continui rimandi alla caducità della vita?
Sono entrambi temi che affascinano da sempre gli artisti. L’artista scava, infatti, dentro di sé per dare alla propria esistenza e a quella dei suoi simili un valore che si proietti oltre la fine, per trovare in fondo una consapevole salvezza, che potrebbe corrispondere alla ricerca del bello. Forse.
La ceramica viene solitamente utilizzata per opere di piccole dimensioni. Con quale tecnica realizzate questi lavori di carattere monumentale?
Le nostre opere sono interamente realizzate in ceramica, compresi lacci di cuoio, sedie e farfalle. Il nostro percorso artistico è andato, dunque, di pari passo con gli sviluppi tecnici e tecnologici del mezzo espressivo. All’inizio utilizzavamo esclusivamente la maiolica, poi abbiamo messo a punto una tecnica che ci ha permesso di realizzare statue monolitiche di grandi dimensioni, aprendo anche all’utilizzo di materiali e tecnologie di derivazione industriale. I tempi di lavorazione sono estremamente lunghi: tutto viene ricreato in laboratorio, sfidando spesso le convenzioni ceramiche. La tecnica è come uno strumento ottico, che focalizza sul dettaglio per meglio arrivare all’esito visivo che si intende mettere in scena.
Facendo riferimento al vostro laboratorio, avete usato spesso la parola opificio, con chiari rimandi alla bottega rinascimentale. Quali le peculiarità? Perché oggi, specialmente in Italia, risulta difficile proporre un modello di questo tipo?
Abbiamo sempre pensato che il lavoro artistico, soprattutto se complesso come quello scultoreo, necessiti della bottega, nel senso classico, con personalità competenti nelle singole mansioni: il modellista per gli stampi e le forme, il pittore per la coloritura, l’esperto nelle rifinitura e così via. In Italia questo modello esiste, purtroppo, solo in pochi casi perché nessuno sostiene realtà come questa. Dalle amministrazioni più vicine, i Comuni, fino allo Stato, tutti faticano a comprendere che queste competenze, una volta perse, non si potranno recuperare tanto facilmente. Noi siamo oberati da tasse che riguardano il sistema produttivo, ma il nostro mondo risponde a regole lontanissime dalle logiche di un’azienda che produce bulloni, per esempio.
Dopo due Biennali e il Premio Pascali, negli ultimi anni avete lavorato soprattutto all’estero. Quali differenze avete riscontrato dal punto di vista del mercato?
Negli ultimi anni abbiamo rivolto prevalentemente il nostro lavoro all’estero per due motivi. Il primo è l’idea, purtroppo molto diffusa, che un artista debba essere riconosciuto prima fuori casa e poi riconfermato in patria, magari in tarda età o, meglio ancora, dopo la sua morte, per avere un valore. Una cosa piuttosto criticabile, un po’ come piangere una persona scomparsa a cui hai sempre voluto bene, ma senza averglielo mai dimostrato. Il secondo motivo, il più stringente, è che in Italia non avremmo avuto modo di vivere con il nostro lavoro: il collezionismo esiste anche qui e apprezza gli esiti delle nostre ricerche, ma il nostro sistema legislativo sta progressivamente allontanando gli appassionati da tutto quello che viene rubricato nel superfluo e nel lusso.
Dove potremo vedere prossimamente le vostre opere?
Nell’ambito di due mostre personali: fino al 19 maggio al Museum Beelden aan Zee dell’Aia, con una ventina di opere realizzate dal 1997 ad oggi; dal 12 aprile al 16 giugno alla sede della Galerie Beck & Ekkeling di Düsseldorf.
Lavorate insieme da oltre trent’anni. Qual è il principale pregio dell’altro? E il difetto?
Sono gli stessi. Il pregio: avere uno specchio pensante con il quale confrontarsi. Il difetto: l’età (ridono, ndr) e tutti i problemi che ne conseguono…