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Global Intelligence Systems, ovvero sistemi di interazione ambienti-oggetti-utenti che non si limitano ad agire sul presente in base a impostazioni predefinite, ma promettono di prevedere, consigliare e offrire soluzioni. Di questo si occupano i ricercatori nei dipartimenti delle nostre università. E se negli ultimi anni questi sistemi sono stati ideati quasi esclusivamente per ambienti domestici o di lavoro, oggi l’Unione Europea spinge e finanzia la progettazione di ambienti intelligenti in grado di comunicare tra loro, come una rete, e fornire agli utenti servizi anche fuori dalla propria casa o dal proprio ufficio.

Gli ambienti diventeranno sistemi di dispositivi interconnessi in costante dialogo tra loro, che opereranno per fornire all’utente prestazioni complesse, fornirgli il maggior numero di informazioni possibili e persino ricordargli cosa è meglio fare per affrontare determinate situazioni. Un esempio concreto ed elementare? Un dispositivo potrà rilevare che è prevista pioggia e, sapendo che a un dato orario l’utente sarà per strada, gli ricorderà di prendere l’ombrello o gli fornirà le indicazioni per raggiungere il posto più vicino per acquistarlo. Le rilevazioni, l’elaborazione di dati e situazioni e l’interazione con l’utente sarà continua e costante, garantita da funzioni già adesso disponibili sugli smartphone che verranno processate e condivise tramite nuovi software.

Al Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’università di Parma si sta percorrendo questa strada sulla quale si registra già un primo successo: il middleware NAM4J – rilasciato come open source – software che è stato utilizzato per sviluppare un prototipo di applicazione di mobile sensing che gira anche su smartphone di tipo Android. L’ingegner Michele Amoretti, ricercatore del Dipartimento ci spiega che «quando l’utente installa e avvia la app, entra a far parte di una rete peer-to-peer che gli permette di cercare informazioni pubblicate dagli altri nodi della rete, altri smartphone con questa app o nodi fissi». Questi ultimi collezionano informazioni sensoriali sugli ambienti e possono fornire informazioni di ogni tipo, dalla temperatura di una stanza al grado di affollamento di un museo. In questo modo l’utente in mobilità non è costretto a cercare continuamente le informazioni, ma può limitarsi a indicare quali sono le categorie di suo interesse: sarà l’applicazione a notificare eventuali informazioni utili per l’utente.

«La vera difficoltà dei progetti di ambient intelligence – dice Amoretti – è trovare soluzioni che si adattano dinamicamente ai profili degli utenti. è chiaro che gli utenti più anziani faranno più fatica dei giovani ad accettare questo tipo di tecnologie, ma anche all’interno della stessa fascia di età ci sono preferenze diverse. Ogni utente deve poter configurare i servizi offerti dal sistema di ambient intelligence secondo le proprie esigenze, e quest’ultimo deve essere in grado riconoscere quale utente si sta muovendo in quale ambiente domestico, per offrirgli i servizi adeguati. Se nello stesso ambiente ci sono più utenti, il sistema deve saper mediare, prendendo decisioni che possano andare bene per tutti».

Ci si troverà certamente di fronte ad una tecnologia in grado di migliorare la nostra vita quotidiana, di semplificarla: forse troppo? Si potrebbe pensare che l’intelligenza degli ambienti possa farci perdere autonomia di giudizio, capacità di risolvere i problemi e di cercare informazioni. La sociologa Diane Sonnenwald dell’università di Dublino sta studiando gli aspetti comportamentali di quella che si prospetta come una vera rivoluzione delle nostre abitudini. «Stiamo studiando i riflessi di questa tecnologia su persone di ogni età e status – racconta Sonnenwald – valutando le sfide e i potenziali benefici. Bisogna studiare come rendere tali sistemi compatibili con i valori e le esperienze delle persone e bisogna farlo oggi, prima che un errato approccio a questa tecnologia porti con sé spiacevoli conseguenze». La global intelligence è una tecnologia entusiasmante, ma il dubbio che comprometta le capacità di relazione tra le persone viene preso in considerazione dagli studiosi stessi. Diane Sonnenwald è ottimista: «È vero, c’è questo rischio, ma d’altro canto potrebbe anche migliorare la qualità delle interazioni, una volta depurate dalla ricerca delle informazioni minori di cui si occuperebbe il sistema. Questa tecnologia potrebbe anche aiutare a capire meglio e migliorare le nostre interazioni e relazioni».

Il futuro ci aspetta dunque, con la sicurezza che, come minimo, la pioggia non ci sorprenderà più senza ombrello.