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A soli ventiquattro anni hai preso parte a numerose mostre personali e collettive, sei stato selezionato tra i finalisti del Premio Cairo 2011 e collabori con Vogue Italia. La ricetta per il successo?
Ingredienti necessari: un cartone di talento, varie confezioni di umiltà e dedizione, un barattolo di ansietà, 200 gr di fortuna, 500 gr di estroversione e 500 gr di determinazione. Far lievitare con pazienza e servire con coerenza (ride, ndr). Quando ho iniziato, mi sarebbe piaciuto avere una ricetta, una guida, oltre ai libri, le canzoni e le parole che hanno condito la mia adolescenza. Quello che ho capito è che il tutto deve essere cucinato a fuoco lento, con costanza certosina. Ho iniziato a quindici anni, come illustratore, poi mi sono avvicinato all’arte contemporanea e ho tenuto la mia prima personale. Ora, a ventiquattro anni, quel periodo mi sembra molto lontano… È questo lavoro che ti porta ad accantonare la questione anagrafica, dandoti la percezione di essere in costante ritardo. Faccio parte di una generazione in bilico: quella dei talent, del tutto e subito, dei sentimenti a rate. Ammetto di essere stato fortunato, altri sicuramente lo sono stati meno di me, ma credo che molto dipenda da impegno, preparazione e serietà. Se tornassi indietro direi alcuni no, ma si sa, l’impulsività è cosa intrinseca all’età, quindi zero rimpianti e si va avanti.

Nelle tue opere ricorre spesso il tema dell’infanzia, trattato con grande garbo, ma senza incorrere in stereotipi o visioni edulcorate…
Non mi sono mai fidato della prima risposta, in nulla. E anche l’idea dell’insegnamento fine a se stesso non mi ha mai convinto. Nell’infanzia c’è l’esperienza della prima volta, della morte, del corpo, delle forme. Mi affascina anche il modo in cui questa fase si ripropone nell’età adulta, diventando, in certi casi, patologia. Nella mia infanzia ho accudito un senso di melanconia, sacra per la mia arte e le mie creature. Non è tristezza, semmai attesa e sospensione. È l’idea di come il dolore possa essere accudito e sviscerato, fino a farlo fiorire.

Come nasce una tua opera?
Avendo una matrice figurativa, la parola rimane un elemento fondamentale per la mia ricerca. Il più delle volte parto proprio dal titolo per creare il progetto. Molte delle opere presentate a Torino, ad esempio, rendono omaggio ai grandi romanzi che hanno contribuito alla mia formazione, da Garcia Márquez a Màrai e Hardy. Prendo foglio e matite per creare il bozzetto, non più grande di un post-it. Successivamente traspongo il lavoro su tela, ma con una certa libertà, anche perché le forme sono sostanzialmente liquide e molli.

La mostra, allestita fino al 7 giugno presso la Galleria L’Église di Torino, segna un passaggio fondamentale nella tua ricerca. Quali le principali novità?
Finalmente le mie creature sono cresciute. Non è stato un lavoro semplice, anche perché la mostra ha richiesto molta introspezione. La figura, poi, non è più sola. Le opere sono affollate, ma l’idea che traspare è quella di incomunicabilità, di muro. Sono figure che vagano, abbandonate a se stesse; hanno in qualche modo fallito e attendono il momento del giudizio. Un’altra novità consiste nell’inserimento di tre piccole sculture all’interno del percorso espositivo. Una l’avevo già presentata a Roma, le altre due sono inedite. Riprendono tutte l’idea del gioco, di un’infanzia percorsa da ricordi e legami.

Al tuo attivo c’è anche un’interessante collaborazione con Vogue Italia. Come ti poni in relazione al mondo della moda e dell’illustrazione?
Vogue è stato un passaggio fondamentale per me e per la mia riconoscibilità. Avevo già collaborato con riviste di moda, da GQ a testate straniere, ma essere chiamati da Vogue è tutta un’altra cosa. Ogni mese illustro un outfit di una maison di moda, accompagnando l’immagine con pensieri e parole in libertà. Purtroppo in Italia la compartimentazione delle arti è molto rigida: un illustratore è tale e rimane tale, senza poter accedere al sacro mondo dell’arte. Mi piacerebbe che venisse riconosciuta, anche dal punto di vista economico, una professionalità che non sempre corrisponde ad una precisa definizione.

Progetti in cantiere?
Da aprile scorso, su Rai2, va in onda un nuovo programma, intitolato Guardami: uno spaccato sui giovani dai diciotto ai ventiquattro anni, che raccontano le loro passioni, le loro storie e gli stili di vita. È stata un’esperienza incredibile, che si è protratta per quattro giorni di riprese e che sarà trasmessa a fine mese. Ora mi prenderò una piccola pausa, preparerò gli ultimi esami, dopo di che mi butterò a capofitto nella preparazione della prossima mostra, che si terrà ad Amsterdam. Cercherò di vivere la città girando tra studi d’artista, gallerie e musei. Parola d’ordine: ispirazione!

La tua libreria?
La mia libreria è composta dalla filmografia completa di Lars von Trier, da molti cataloghi e libri, da Montale ad Ammaniti, dalle opere di Bruegel, Bosch e Lèon Spilliaert. Colleziono campane di vetro, ho polaroid di famiglia sparse per casa, ex voto e fogli. Tanti fogli.

Cosa vorresti fare da grande?
Da piccolo non mi sono mai posto il problema, già disegnavo con la mano del diavolo come dicevano le suore, per cui il mio unico desiderio era di non perire tra le fiamme ardenti dell’inferno, poi ho conosciuto i dipinti di Bosch e ho cambiato idea… Da grande spero di essere felice, di avere una famiglia e di non voltarmi troppo indietro. Spero di poter fare il mio lavoro di artista e di essere riconosciuto come tale, senza tanti fronzoli. Una vita incredibilmente normale.