
Per me gli orizzonti si allargano sempre più; dall'Alpi alla Sicilia, è tutta una casa. L'abito con un solo sentimento che non morrà mai neppure colla mia morte (Ippolito Nievo)
di Federico Parmeggiani
Almeno da un decennio l’opportunità di adottare un sistema federalista è uno dei temi più discussi di tutto il panorama politico e istituzionale. La stessa schiera dei sostenitori di una riforma così epocale si rivela molto eterogenea, comprendendo sia coloro che fanno leva sul dato storico-culturale di un’Italia non idonea a fare convivere sotto un medesimo ordinamento popoli e aree geografiche così diversi, sia coloro che motivano il proprio supporto al federalismo sulla base di ricostruzioni e modelli economici volti a dimostrare come da un punto di vista produttivo, fiscale e gestionale un’Italia federalista sarebbe più efficiente, più equa e quindi maggiormente in grado di garantire uno standard di vita più elevato ai propri cittadini.
Una voce autorevole, capace di fare chiarezza su un tema così sfaccettato e complesso, è certamente Luca Ricolfi, professore di analisi dei dati presso l’Università di Torino, che al federalismo ha dedicato, oltre a diversi interventi tenuti su illustri testate periodiche e quotidiane, il libro Il sacco del Nord (Guerini e associati). Tale libro ha l’indubbio pregio di adottare un’approccio scientifico nell’analisi dei problemi e delle sperequazioni che affliggono l’Italia e di formulare proposte originali per costruire una forma di ordinamento federale concretamente applicabile e finalizzato ad una gestione virtuosa delle risorse pubbliche, non avente quindi finalità meramente punitive.
Ma in cosa differisce innanzitutto questa concezione del federalismo con quella propugnata dalla Lega Nord? “Per dire in che cosa stia la differenze fra il ‘mio’ federalismo e quello della Lega – puntualizza Ricolfi – bisognerebbe conoscere quello della Lega, che a tutt’oggi è tutt’altro che chiaro, visto che la Legge 42 (la legge per l’attuazione del federalismo fiscale, n.d.r.) è piuttosto vaga, e comunque ancora priva della maggior parte dei decreti delegati. Posso solo parlare, quindi, della mia idea di federalismo, che poggia su quattro pilastri. In primis la spesa pubblica discrezionale per l’erogazione dei servizi dovrebbe essere completamente sganciata dal reddito prodotto nei vari territori, mentre nella Legge 42 questa indipendenza pare essere garantita solo in parte; in altre parole, il mio federalismo è pienamente solidarista, quello della Lega lo è all’80%. In secondo luogo gli immigrati regolari, se lavorano e non hanno commesso reati, dovrebbero avere gli stessi diritti degli italiani, in particolare in materia di accesso ai servizi pubblici. Tre: il riequilibrio dei conti pubblici territoriali dovrebbe riguardare anche il tasso di evasione fiscale e l’efficienza nell’erogazione dei servizi, due problemi che la Legge 42 lascia un po’ in ombra, ma che secondo la ricostruzione che ho fatto ne Il sacco del Nord costano alle regioni settentrionali qualcosa come 18+20=38 miliardi di euro l’anno. Infine gli amministratori che sforano i bilanci dovrebbero essere obbligati ad aumentare le tasse durante il loro mandato, e inoltre diventare non eleggibili né nominabili a cariche pubbliche, comprese quelle delle società controllate dalla Pubblica Amministrazione. Per riassumere con una formula, il mio federalismo è più solidarista e più severo, più generoso con il Sud e gli immigrati, ma al tempo stesso più inflessibile con chi sgarra”.
In quest’ottica riformatrice, è ragionevole chiedersi come reagirebbe la politica, che da sempre riesce a perpetuare se stessa in virtù di un gattopardesco immobilismo, e soprattutto se riuscirà mai la società civile italiana a fare pressione affinché avvenga un taglio netto col passato, rendendosi disponibile a rinunciare a qualche piccolo favoritismo personale. Su questo punto il professor Ricolfi è lapidario: “La società civile non è migliore della società politica. No, non penso che la voglia di cambiamento prevarrà sull’attaccamento ai privilegi, grandi o piccoli che siano”. E sull’aggravamento della spaccatura tra Nord e Sud da più parti paventata come conseguenza di un federalismo adottato con troppa fretta, Ricolfi aggiunge che una simile situazione “è possibile, ma lo scenario più probabile non è quello di un ‘federalismo adottato troppo in fretta’, bensì quello di un federalismo che non decolla mai. In quel caso è possibile che la Lega torni ad essere separatista, pena la delusione dei propri elettori”.
Parimenti improbabile è ritenuta l’ipotesi di una nuova ondata di flussi migratori da Sud verso Nord: “attualmente il potere di acquisto per unità di lavoro, ossia il rapporto fra il reddito disponibile e le ore lavorate, è sensibilmente più alto al Sud che al Nord, non perché i salari orari al Sud siano elevati ma perché il costo della vita è sensibilmente inferiore, e inoltre, accanto ai redditi guadagnati sul mercato, nel Sud convivono una massa di benefici, sussidi, incentivi, redditi derivati che si sommano ai redditi di mercato e sostengono il tenore di vita. Per ora al cittadino meridionale non conviene trasferirsi al Nord, e infatti sono pochi coloro che scelgono la via della migrazione interna. E’ possibile che spostarsi a Nord convenga fra dieci anni, se e quando la situazione del Mezzogiorno si fosse nel frattempo deteriorata, visto che la capacità del Nord di mantenere il Sud è destinata ridursi. Ma a quel punto è più probabile che i posti di lavoro del Nord vengano preferenzialmente occupati dagli immigrati stranieri, come già sta avvenendo da 15 anni. Nella concorrenza fra cittadini del Sud e cittadini stranieri i primi sono destinati a soccombere, perché gli stranieri sono più capaci di adattamento e di sacrifici, e per di più sono istruiti quanto gli italiani”. Si ripropone quindi il ritratto da secoli familiare di un’Italia immobile e a due velocità, consunta da una dialettica tra politica e cittadini il cui fine ultimo non sembra essere il cambiamento verso qualcosa di meglio (per tutti), ma l’assicurare in qualche modo una rendita di posizione a se stessi e ai propri amici.
Ma anche in un tale contesto esistono degli interventi politico-economici che potrebbero fin d’ora incidere profondamente soprattutto su quelle regioni che dimostrano di essere meno efficienti e “più parassite”? Secondo Ricolfi “nell’immediato non si può fare molto e bene, perché mancano i dati e gli studi analitici necessari per pilotare il cambiamento. Nel frattempo un pacchetto di misure efficace potrebbe passare dall’affidamento all’Agenzia delle Entrate, cioè al fisco, di obiettivi rigorosamente territoriali, cominciando a recuperare evasione nelle regioni e nelle province dove il fenomeno è più diffuso (Calabria, Sicilia, Campania) assieme alla possibilità di trasformare tutto il recupero di evasione fiscale in minori tasse sulle imprese e sul lavoro (abbattimento delle aliquote societarie e del cuneo fiscale). Abbandonando inoltre i tagli lineari alla spesa pubblica per renderli proporzionali al tasso di spreco di ogni territorio. Ma anche usare i risparmi di spesa per completare lo stato sociale: asili nido, ammortizzatori sociali automatici, sostegno ai poveri e ai non autosufficienti. Per completare il quadro basterebbe istituire tre tasse automatiche, proprie rispettivamente di Regioni, Province e Comuni, che scattano alla fine di ogni anno e ripianano interamente l’eventuale aumento del deficit (segnalando così ai cittadini chi ha mal amministrato il denaro pubblico)”.
Le linee di intervento alle quali si potrebbe iniziare a lavorare fin d’ora sono pertanto molteplici e potrebbero concretamente ridisegnare l’assetto istituzionale italiano in termini più efficientisti e meritocratici, liberando maggiori risorse per i più virtuosi e responsabilizzando con severe sanzioni gli amministratori meno diligenti. Alla luce di ciò viene spontaneo chiedersi se si possa intravedere all’orizzonte la possibilità che l’Italia si avvii in tempi ragionevoli verso una forma di federalismo ordinata e ben funzionante. “No, tenderei ad escluderlo – conclude il professor Ricolfi -. Come pare dicesse Mussolini, governare gli italiani non è difficile, è inutile”. Forti di questa chiusa, a noi viene spontaneo ricordare come una società non meritocratica – in cui una parte di essa tende a dissipare quanto prodotto da un’altra e in cui ci si organizza sistematicamente in consorterie e familismi di varia natura – sia innanzitutto una società schiava delle forme in cui si costituisce il potere. Ritorna alla mente quindi un’altra citazione, forse del giornalista che meglio di tutti seppe cogliere vizi e virtù dell’italica gente, Indro Montanelli, secondo il quale “la schiavitù, in molti casi, non è una violenza dei padroni, ma una tentazione dei servi”. Buonanotte Italia.
Devo dire che non si può che concordare con le sue idee in tema di federalismo, fiscale e non.