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Tutti noi abbiamo, attraverso i vari social network, una finestra su un mondo virtuale che è ormai diventato il riflesso più reale della vera realtà del mondo. E tutti noi prima o poi ci troviamo sulla bacheca dei nostri contatti notizie incredibili, scandalose, irritanti, false e improbabili, eppure credute e credibili, tanto da avere l’onore di essere ripetutamente condivise. E diventiamo ruote di un ingranaggi di cui non sappiamo di far parte, e che non sappiamo cosa produce. A parte odio, diffidenza, paura, incertezza, indignazione…

L’arte di convincere gli altri passa dalla pancia, non dalla mente. Probabilmente è questo il principio cardine della manipolazione delle opinioni nell’era della post-verità. Premere sui bassi istinti, sulla paura, su un nemico comune da additare per fare breccia, per accumulare un successo che al tempo dei social network si chiama condivisioni, click, e quindi monetizzazione delle visualizzazioni. Chi passa sotto il maglio della calunnia non importa, si tratti di personaggi famosi o sconosciuti, aziende, settori sociali… Tutto fa brodo, l’importante è che faccia paura o che indigni, che spinga il fruitore della pseudo-notizia a volerla condividere acriticamente con i propri contatti, in una corsa senza giudizio a farsi portatore di notizie bomba. Quasi sempre, e palesemente, false ovviamente ma questo, al tempo della post-verità, interessa pochi. L’importante è solo che appaia plausibile: un po’ come dire “magari non è vero, ma ci credo”.
Tutto questo vi suona assurdo o paradossale? Certo che lo è, ma è anche vero che questa è la situazione al giorno d’oggi. Tutti noi abbiamo, attraverso i vari social network, una finestra su un mondo virtuale che è ormai diventato il riflesso più reale della vera realtà del mondo. E tutti noi prima o poi ci troviamo sulla bacheca dei nostri contatti notizie incredibili, scandalose, irritanti, false e improbabili, eppure credute e credibili, tanto da avere l’onore di essere ripetutamente condivise. Possono cadere tutti in buona fede in queste trappole che sorgono dal crollo della fiducia dell’opinione pubblica negli organi d’informazione ufficiali. Nell’illusione che notizie e verità venissero sempre nascoste dai canali istituzionali, ci si è spinti a dare sempre più credito alle teorie dei blog, ai concetti spiegati tramite facili e accattivanti memes, a notizie pubblicate su testate virtuali improbabili nate dal nulla, magari con l’intento di fare un’ambigua quanto discutibile satira. Ragazzate, burle acchiappa-click? Forse qualche tempo fa era possibile catalogare questo fenomeno come prodotti disfunzionali dello sviluppo dei social network, ma oggi non più. A furia di sottostimare il fenomeno fake news, derubricandolo spesso a marachelle di buontemponi, è nato un grosso problema che sempre più spesso influisce a vasto raggio e determina la direzione di avvenimenti, scelte e politiche. Alla base di quella che oggi infatti è considerabile un vero e proprio modo di agire per modificare la realtà, sta una strategia di marketing ben codificata, la cosiddetta FUD (Fear, Uncertainty and Doubt) che si basa sulla diffusione di notizie negative, vaghe e denigratorie sul prodotto di un concorrente in modo da scoraggiarne l’acquisto da parte dei potenziali clienti.

Analfabetismo funzionale
Il brodo di coltura in cui prospera questo tipo di pseudo informazione, oltre che nella distrazione, sta nel cosidetto analfabetismo funzionale. Non siamo più in tempi dove l’analfabetismo tout court rappresenta un problema sociale. Tutti sanno leggere e scrivere, ma non tutti sanno davvero comprendere un testo o ricavarne un’informazione, non tutti sono adeguatamente preparati alle competenze richieste dalla vita quotidiana del XXI secolo. Sono proprio questi gli analfabeti funzionali, coloro che non hanno adeguatamente sviluppato la loro istruzione di base e per pigrizia o mancanza di pratica perdono col tempo le capacità minime acquisite durante gli anni della formazione.
Una recente ricerca dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) sulla valutazione su base internazionale delle competenze della popolazione adulta, ha tratteggiato un panorama desolante per l’Italia. Il nostro paese è infatti al penultimo posto in Europa per livello di competenze e quartultima a livello mondiale tra i 33 paesi presi in analisi. Secondo l’indagine la popolazione italiana è composta per il 28% da analfabeti funzionali, e peggio di noi in classifica si piazzano solo la Turchia (47%), il Cile (53%) e l’Indonesia (69%). A titolo di curiosità, l’analfabetismo letterale, classicamente inteso, nel nostro paese interessa invece poco meno dell’1% della popolazione.
Il profilo del tipico analfabeta funzionale italiano è tratteggiato invece da una ricerca dell’Osservatorio Isfol: è uomo, over 55, fa lavori manuali o di routine. La ricerca sottolinea infatti come poco più della metà della percentuale siano uomini e di fascia culturalmente debole. La distribuzione geografica vede il Nord-ovest e il Sud del Paese come le zone con la maggiore densità di analfabeti funzionali. Tuttavia non ci sono fasce anagrafiche o zone d’Italia che possono dirsi estranee al problema. Sono a rischio infatti i giovani che non lavorano né studiano, le calinghe, i pensionati. La zona d’Italia col tasso minore di popolazione low skilled è il Nord-est, ma parliamo comunque di un tasso al 12,4%.
Peggio per loro? No, è un male per tutti.

Il falso diventa verità
“Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”. E’ una frase attribuita a Joseph Goebbels, il potente ministro della Propaganda della Germania nazista, uno che di manipolazione delle opinioni se ne intendeva. E questo è proprio quello che in sostanza accade a lungo andare con le fake news: ad esempio, a furia di leggere che una tale personalità politica ha commesso abusi, reso affermazioni irritanti o preso posizioni a dir poco impopolari, la personalità in questione si trova implacabilmente in una posizioni di forte antipatia presso l’opinione pubblica. Diventare una figura impopolare è certamente una cosa che può essere normale per un politico, ma se accade per demeriti reali, non di certo a causa di notizie inventate. Questo è un tritacarne attraverso cui sono passati diversi politici italiani recentemente, basterebbe fare un nome per tutti, l’ex presidente della Camera Laura Boldrini. Ma questa è una dinamica che certamente non appartiene solo alla politica italiana, anzi. Uno studio dell’Australian Strategic Policy Institute ha dichiarato che le elezioni presidenziali americane del 2016, dove Hillary Clinton è stata sconfitta da Donald Trump, sono state influenzate da un flusso di informazioni false che hanno smosso in maniera palpabile una parte dell’elettorato. D’altronde basta osservare i numeri delle bufale diffuse negli Usa nel periodo pre elettorale: quella in cui Papa Francesco esprimeva un inesistente endorsement per Trump alla presidenza ha totalizzato 960 mila condivisioni su Facebook, ad esempio. Proprio Facebook è una delle più importanti chiavi di volta di tutta l’architettura delle fake news: è infatti dal social network per eccellenza che le bufale spuntano e si diffondono sottoforma di post che rimandano a improbabili siti d’informazione che talvolta non vengono nemmeno cliccati, perché all’analfabeta funzionale è sufficiente un titolo d’impatto per processare la notizia e battezzarla come autentica. E proprio il creatore di Facebook, Mark Zuckerberg, ha ammesso le responsabilità della sua creatura nelle campagne di disinformazione, e nella fattispecie nell’influenzare la campagna presidenziale americana. Il social network sta lavorando a nuovi meccanismi che possano filtrare le notizie reali dalle fandonie, ma il problema per adesso non accenna a diminuire. E se le fake news possono cambiare il destino dell’elezione del presidente degli Stati Uniti, cosa possono fare se sotto tiro c’è un’azienda?

Odio di palma
La vecchia polemica sull’olio di palma è un caso che fa scuola, innestando quella che fondamentalmente si è rivelata una bufala (la nocività dell’olio di palma) inestandolo su un tema ecologista fondamentalmente valido (il disboscamento indiscriminato di aree tropicali). La polemica, come spesso accade in questi casi, non si sa come sia nata con precisione, ma ha fatto nascere una vulgata in cui l’olio di palma è diventato una sorta di ingrediente killer di alimenti nient’affatto salutari. Tantissimi marchi alimentari allora hanno cominciato a correre ai ripari e la dicitura “senza olio di palma” era diventato una specie di attestazione di innocenza per biscotti e merendine. Un’azienda in particolare ha rifiutato di sottomettersi alla marea, la Ferrero per il suo prodotto più famoso, la Nutella. Per mesi il prodotto subì una flessione delle vendite, ma la casa madre, invece di cambiare la formula del prodotto, intraprese una campagna divulgativa di carattere scientifico sul perché l’olio di palma non è nocivo e sull’origine sostenibile della materia prima da loro usata. I risultati non mancarono e la Nutella tornò ai suoi normali volumi di vendita. La Ferrero però non mancò di tutelarsi anche nelle sedi giudiziarie contro marchi che hanno provato a infierire sulla Nutella additandola come prodotto poco salutare per valorizzare il proprio: è il caso della causa intentata dalla casa di Alba contro la catena Gdo belga Delhaize, condannata per aver usato affermazioni comparative non verificabili e quindi non obiettive.

All’improvviso, la bufala
Nessun marchio oggi può dire di essere al sicuro da affermazioni inventate che dilagano on line, ed i casi sono molteplici. Nei mesi scorsi è toccato ad esempio all’azienda conserviera Mutti trovarsi sotto tiro, improvvisamente. La notizia shock sarebbe stata che l’azienda richiamava dal mercato un lotto di passata contaminato dalla presenza di tracce di arsenico. «Abbiamo appreso della fake news il 14 novembre scorso nel primo pomeriggio, grazie alla segnalazione di un nostro cliente. Nel corso del pomeriggio, la ricezione di altre segnalazioni ci hanno fatto percepire un alto livello di diffusione del falso documento – ci racconta Franco Dameno, direttore assicurazione qualità di Mutti Spa – Innanzitutto abbiamo fatto le verifiche necessarie ed è subito emerso che si trattava di un falso. Immediatamente, il pomeriggio stesso del 14 novembre, abbiamo contattato la Polizia Postale di Parma per spiegare l’accaduto. La mattina successiva abbiamo inviato una lettera al Ministero della Salute per segnalare il caso e contemporaneamente provveduto a sporgere denuncia formale presso la Polizia Postale. Da quel momento in poi abbiamo avviato un’attività di comunicazione a 360 gradi nei confronti di tutti i nostri stakeholder per smentire in modo categorico la notizia». Una bufala acchiappata al volo in questo caso, ma che comunque sarebbe stata pericolosa se non contrastata. In questo caso infatti il danno sembra non esserci stato, come conferma Dameno: «Non abbiamo evidenze di diminuzione delle vendite, anzi dai monitoraggi fatti è emersa una reazione generale di difesa della marca, da parte dei consumatori e non solo. In questo specifico caso riteniamo che la fake news non abbia intaccato la fiducia nel nostro brand, che ha sempre fatto della trasparenza un caposaldo del rapporto con i propri consumatori. Non a caso, nei giorni successivi alla diffusione della fake news abbiamo spento le attività sulla nostra pagina Facebook, pubblicando solo il messaggio: “rispondiamo alle false notizie con la trasparenza di sempre”, e così abbiamo fatto: abbiamo risposto a oltre 800 richieste di chiarimento da parte dei consumatori arrivate al nostro numero verde». E passata la burrasca si cercano i colpevoli, ma rintracciare il creatore di una fake news è come cercare un ago nel pagliaio, come conferma Dameno: «abbiamo intrapreso tutte le opportune azioni legali a tutela della nostra credibilità e della nostra immagine e per individuare i responsabili. Denuncia è stata fatta alla Polizia Postale per diffamazione, che costituisce reato penale. Ad oggi tuttavia le Autorità non hanno ancora identificato i responsabili ed è proprio l’anonimato uno degli aspetti più inquietanti e pericolosi delle fake news».

Difendersi, da chi?
Chi e perché crea e diffonde fake news? Non c’è una vera e propria risposta a questa domanda. Molte bufale si diffondono come uno scherzo oppure come un esperimento sociale, un po’ come accadeva per le vecchie catene di Sant’Antonio, con l’autore che sperava di farsi quattro risate ricevendo la lettera originale che aveva ideato lui chissà quanto tempo prima. Ma sempre più spesso ci sono ragioni, se non serie, più concrete. Le fake news d’impatto infatti generano click su siti internet, che convertono le visualizzazioni in incassi pubblicitari. Una fake news ad esempio, anche solo visualizzata da 500 mila persone, può fruttare al proprietario del sito su cui è ospitata più di mille euro attraverso le ricompense dei vari servizi pubblicitari a cui il sito è affiliato. Per questo motivo si sono diffuse negli anni vere e proprie società, spesso con sedi legali in paesi dalla legislazione sulla calunnia molto blanda, che operano per ricavare un profitto da tale attività di falsificazione dell’informazione mediante lo sfruttamento economico dei banner pubblicitari collegati ai siti web, realizzando un significativo giro d’affari.
Ma dal punto di vista legale, la fake news non ha ancora una precisa collocazione, come ci conferma l’avvocato Massimo Romolotti: «In passato questo fenomeno era di trascurabile entità, oggi, grazie alla Rete ha assunto connotati epidemici. A oggi una disciplina specifica in materia non esiste ancora. È stato proposto un disegno di legge recante “Disposizioni per prevenire la manipolazione dell’informazione online, garantire la trasparenza sul web e incentivare l’alfabetizzazione mediatica”, ma questo prima dello scorso scioglimento delle Camere. Non sono a conoscenza di novità sull’iter legislativo che, presumo, sia bloccato. Il ddl dovrebbe introdurre due articoli nel codice penale: l’articolo 656-bis e il 265-bis. La previsione del primo estenderebbe a “chiunque pubblichi o diffonda notizie false, esagerate o tendenziose attraverso social-media o altri siti che non siano espressione di giornalismo online, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’ammenda fino a cinquemila euro; mentre il secondo articolo citato prevederebbe “la reclusione non inferiore a dodici mesi e l’ammenda fino a cinquemila euro per chiunque diffonda o comunichi voci o notizie false, esagerate o tendenziose, che possano destare pubblico allarme o per chiunque svolga comunque un’attività tale da recare nocumento agli interessi pubblici”. Il disegno di legge potrebbe rispondere alle esigenze di certezza del diritto e, in particolare, di dotare l’ordinamento giuridico di strumenti adeguati per contrastare il crescente fenomeno delle cosiddette bufale, anche se queste norme verrebbero viste, da una parte della dottrina, come una limitazione della libertà di espressione». Ma attualmente cosa rischia l’artefice di una bufala? «Premetto che non è prevista alcuna specifica sanzione a soggetti non professionali – prosegue Romolotti – mentre esistono strumenti di auto-correzione tesi alla promozione di codici di condotta che vengono adottati dalle principali piattaforme online. Le conseguenze sanzionatorie, di natura penale, sono previste, ora, solo per la stampa periodica. Attualmente sono configurabili i reati di diffamazione aggravata, di procurato allarme, di abuso della credulità popolare e il reato di rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio».
Ma nell’ombra dell’anonimato digitale, nei grovigli di informazioni sparati dai server, la bufala pascola in ragionevole tranquillità. Il vero rimedio a questo problema – prima che diventi catastrofe – sta con tutta probabilità in una migliore educazione dell’utente, del cliente, dell’elettore, del cittadino. Sarebbe un rimedio lento e accurato da mettere in pratica, ma che porterebbe lontano. E possiamo assicurarvi che questa non è una bufala.