“Oggi la nostra teologia è l’economia”, diceva il filosofo James Hillman a proposito dei valori occidentali e non si può dire che avesse tutti i torti. Ma certe dinamiche non sono uguali ovunque. Ci sono anche dei posti dove è la teologia a plasmare l’economia: i paesi islamici.
Dove ci sta portando la rotta dell’economia internazionale? A Oriente, probabilmente. Medio Oriente nello specifico, convenzione geografica in cui oltre ai territori dell’Asia occidentale, accomuniamo anche gli stati della penisola araba, ma a cui per affinità sociali e religiose possiamo associare anche i paesi dell’Africa mediterranea. L’Expo 2020 avrà luogo a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, col tema portante Connecting minds, Creating the Future e non è certo un caso. E se la cronaca quotidiana sembra presentarci una frattura netta e violenta tra la società dell’Occidente democratico e il Medio Oriente islamico, i panorami economici narrano di due mondi intensamente attratti, e non da ora. Per questo è bene conoscere sempre meglio l’economia che si muove oltre le porte d’Oriente, un economia molto diversa dalla nostra, affascinante, severa, promettente.
Capitali arabi
Prima di addentrarci dentro il mondo dell’economia islamica però facciamo i conti in casa. Quanto capitale arabo abbiamo all’interno dei nostri mercati? La risposta è: significativa, 2,5 miliardi di euro per l’esattezza, secondo un’elaborazione del Sole 24 Ore su dati di S&P Market Intelligence. Le partecipazioni azionarie dei paesi arabi in Italia hanno una storia lunga, e non è un mistero che Gheddafi avesse nella Borsa italiana uno dei suoi terreni d’investimento preferito. Ancora oggi la Libia, pur nell’instabilità della sua forma di governo, è molto presente nei capitali dei titoli di casa nostra e tra i capitali arabi in Italia fa la parte del leone. La banca centrale libica ad esempio aveva in Unicredit, prima dell’aumento di capitale, una quota del 2,6%; poi l’immobilismo forzato dei suoi capitali dovuto alla crisi politica del paese lo ha ridotto a un valore che si stimava attorno al 0,7%, prima di finire sotto l’ala dell’Arab Banking Corporation del Bahrein sotto la cui cura è aumentata fino a oltre il 4%. Ma alla quota araba di Unicredit va aggiunto il 5% del fondo Aabar di Abu Dhabi dello sceicco Mansour bin Zayed Al Nahyan, fratello di Khalifa, il presidente degli Emirati Arabi Uniti. In totale la partecipazione mediorientale nel capitale sociale ammonta al 9,17% rendendo di fatto gli arabi i soci di maggioranza della banca.
Ma le partecipazioni della finanza araba sono numerose. La Libia è presente anche nelle quote di Leonardo-Finmeccanica con un 2% appartenente al Libyan Investment Authority, che possiede anche l’1,9% di Eni e quote minime anche della Banca popolare di Milano e di Intesa Sanpaolo; il fondo sovrano libico possiede quasi il 2% di Enel; la Banca Centrale Libica detiene ben il 59% di Banca Abc Milano; la Libyan Foreign Bank controlla il 67,5% di Banca Ubae, dove un altro 9% è posseduto da banche marocchine; la Kuwait Investment Authority possiede il 2% di Poste Italiane; l’Arab Development Establishment degli Emirati Arabi detiene il 10% in Maire Technimont. Mediobanca non ha quote societarie arabe, ma ha stipulato un grande accordo con la Banca nazionale del Qatar per il finanziamento di grandi operazioni superiori ai 500 milioni di euro. Persino Piazza Affari, il tempio del capitale italiano, attraverso la London Stock Exchange è controllata per il 17,4% dalla Borsa di Dubai e per il 10,3% dalla Qatar Investment Authority.
E si tratta pur sempre di una carrellata non esaustiva, ma che testimonia una notevole fiducia dei capitali arabi nell’impresa italiana. A testimonianza di ciò, ricordiamo che capitali qatarioti – attraverso una joint venture – sono presenti anche nel Fondo Strategico Italiano, la holding creata dal ministero dell’Economia e delle Finanze nel 2011 per investimenti di rischio in aziende di rilevante interesse nazionale, che gode anche della partecipazione del fondo sovrano kuwaitiano.
L’economia islamica
Movimenti vivaci e capitali abbondanti dunque. Ma con quali criteri si muove la finanza islamica? Già, islamica e non araba, perché la Shariah (ossia il complesso di leggi islamiche che regolano il culto e la società) pretende che il commercio e l’economia tra gli uomini siano regolati in accordo con i principi spirituali del Corano, dettando quindi per il loro svolgimento regole ben precise, norme a cui ogni buon musulmano non può sottrarsi.
Il principio cardine della finanza islamica è in definitiva che lo sviluppo materiale degli affari deve salvaguardare non solamente il guadagno del singolo ma anche il bene della collettività in cui vive, secondo principi di equità e giustizia. Questo perché la povertà e l’ingiustizia possono condurre gli uomini in una spirale di crimine e peccato, pertanto evitare che queste situazioni si ingenerino è dovere di ogni musulmano. Partendo da questo principio se ne sviluppano altri. Il denaro è uno strumento, ma non esclusivamente di guadagno, e una transazione finanziaria deve avere una finalità tangibile, che porti benefici palpabili e la creazione di beni concreti, in opposizione alla mera speculazione. L’attività finanziaria è permessa solo in ambiti che non siano proibiti (Haram), cioè moralmente o socialmente pericolosi. La speculazione è vietata in tutte le sue forme, come la vendita di beni che non si posseggono, ed è vietato anche l’interesse in quanto percentuale fissa predeterminata. Ciò però non significa che il finanziatore non debba guadagnare: è lecito il guadagno a patto che colui che mette i capitali condivida il rischio d’impresa e che pertanto partecipi al processo di produzione del bene. Inoltre è ineludibile il principio di onestà e responsabilità, pertanto i contratti devono sempre essere chiari e le parti devono sempre essere perfettamente a conoscenza delle condizioni di ogni transazione.
Questi principi fanno sì che le dinamiche economiche tipiche della finanza islamica ci appaiano utopistiche e che siano spesso molto diverse da quelle che conosciamo. Per citare un esempio, la legge islamica non ammette alcuna penale per il pagamento ritardato di un debito, ma in tal caso il creditore ha diritto di chiedere il pagamento al garante, o di effettuare il passaggio di proprietà del bene dato in garanzia o di sue quote; fermo restando che la Shariah impone il rimborso puntuale dei debiti e condanna severamente il debitore ricco inadempiente o ritardatario.
E’ interessante anche fare un veloce excursus nei principali tipi di contratto che la giurisprudenza islamica ammette per la regolamentazione degli scambi economici e l’attività finanziaria.
I contratti Salam ad esempio sono un tipo di compravendita che fa eccezione alla regola che impone di vendere solo un bene di proprietà. In questo tipo di contratto infatti il venditore s’impegna a fornire al compratore dei beni in una data futura ma in cambio di un pagamento immediato. La specificità del contratto Salam sta nel fatto che il prezzo dev’essere pagato in un’unica soluzione e al momento della stipula del contratto, che dev’essere più dettagliato possibile, con esatte quantità, tipologie e persino precisi accordi per luogo e ora della consegna. Il contratto Istisna’ è molto simile a quello Salam ma differisce per il tipo di pagamento, che può essere concordato a rate o alla consegna del bene. I materiali di produzione utilizzati devono essere di proprietà del venditore, altrimenti, se appartengono al compratore diventerebbe un contratto Ijarah. Quest’ultimo contratto è quello tipico in vigore tra un soggetto che percepisce un salario dal datore di lavoro per i suoi servigi, ma funziona anche per la regolamentazione dei benefici di strumenti o proprietà, ceduti temporaneamente dal proprietario al beneficiario in cambio di un compenso periodico, un po’ come il nostro leasing. Il Musharaka è invece un contratto di finanziamento a partecipazione paritaria, in cui sia il finanziatore che l’imprenditore condividono perdite o profitti in modo proporzionale al loro investimento, usato solitamente per operazioni sul patrimonio o sulla gestione è consuetudinariamente usato per finanziare progetti a medio e lungo termine. Il contratto Mudaraba invece, sempre nell’ottica della condivisione di profitto e perdite, lega il finanziatore e l’imprenditore in modo che il prima fornisca tutto il capitale e il secondo impegni invece le proprie risorse e capacità professionali. Nella fattispecie, in caso di perdita il finanziatore perderà il capitale e l’imprenditore solo il suo tempo, mentre in caso di guadagno si divideranno solo gli utili.
Anche se abbiamo elencato termini arabi e sconosciuti, in futuro probabilmente li sentiremo nuovamente pronunciare, dato che anche la politica italiana ha cominciato a interessarsi alla regolamentazione di questo tipo di economia. Sarà infatti depositato a breve un disegno di legge per normare il trattamento fiscale di operazioni finanziarie che si ispirano ai principi della finanza islamica, allineando in questo senso il nostro paese ai passi già mossi in questa direzione da Gran Bretagna, Francia, Lussemburgo e Irlanda.
Halal marketing
L’economia non è solo flusso di denaro, ma anche produzione dei beni. Qui è indispensabile soffermarsi sul concetto Halal ed il marketing che vi gira intorno. Come già detto infatti, la produzione e il commercio di beni per l’Islam è consentito a patto che non si tratti di servizio o materiali Haram, cioè proibiti. Tutto ciò che non lo è viene considerato Halal, quindi fruibile dagli islamici. Per i musulmani sono Haram qualsiasi sostanze ritenute dannose per la salute, gli alcolici, i prodotti derivati dalla carne di maiale e quelli derivati dalla macellazione di animali avvenuta in modo non rituale, ossia non coscienti prima dell’uccisione, non girati su sé stessi, in una struttura non orientata verso La Mecca.
Ma produrre un bene Halal non è tutto, oggi è necessario anche possedere un’attestazione. Per questo motivo oggi esistono società in grado di certificarlo e permettere così di apporre il marchio Halal sui prodotti che passano i test, esattamente come accade per le certificazioni vegan, Imq oppure la certificazione Iso per le aziende. Da tempo anche nel nostro paese operano enti di certificazione Halal, in grado di fornire quello che per le imprese è un vero e proprio pass per orientare i propri prodotti anche verso il mercato islamico, come affermano i numeri snocciolati da Said El Amori, direttore commerciale di Halal Development. «Le aziende italiane oggi richiedono la certificazione al 15% per il mercato interno, per il 25% per i mercati europei e per il 60% per quelli extraeuropei», confermandola come elemento imprescindibile per lo sbarco di molte merci sui mercati dei paesi islamici. « Oramai quasi la totalità dei 57 paesi membri dell’OIC (Organization for Islamic Cooperation, ndr) impongono la certificazione Halal sia per i prodotti fabbricati internamente che quelli importati dall’estero. – prosegue El Amori – Un terzo di questi ha già sviluppato leggi nazionali per regolamentare l’ingresso dei prodotti alimentari, ristorazione, cosmetici, farmaceutici ed altri, con l’obbligo di avere certificati Halal rilasciati da enti accreditati a livello internazionale». E le regole e i controlli nei paesi islamici si fanno sempre più rigorosi, basti pensare che è recente la creazione al Dubai Central Laboratory negli Emirati Arabi, un servizio di testing basato sulle più recenti tecnologie spettroscopiche per cercare la presenza di grasso di origine animale e soprattutto suina nei cosmetici importati nel paese, in osservanza ai regolamenti del Gulf Standard Specifications.
Se a un consumatore occidentale certe particolarità possono sembrare superflue, per un consumatore musulmano sono fattori che fanno la differenza nella scelta dell’acquisto, come conferma Ahmad Ibrahim, direttore tecnico di Halal International Authority. «Il musulmano vive tutta la sua vita intorno al concetto Halal. Prima di compiere ogni singola azione deve chiedersi: “è Halal o è Haram?” Compiere un’azione Haram, come il consumo di un prodotto non Halal, è un grave peccato. Ingerire una sostanza Haram, consapevolmente e avendo la possibilità ad avere l’alternativa Halal, comporta la non accettazione delle proprie preghiere per quaranta giorni. Naturalmente, è Halal tutto ciò che è salubre e benefico per l’essere umano e per tutto l’ambiente circostante, mentre è Haram il contrario». Un ragionamento che riesce a far comprendere il valore dell’attestazione Halal di un prodotto. Ma se un’azienda volesse ottenere questa certificazione, quanto tempo dovrebbe attendere? «Dipende dall’azienda – continua Ibrahim – se l’azienda fornisce celermente tutto l’occorrente, l’iter si potrebbe concludere entro 30 giorni lavorativi. Se invece l’azienda ha bisogno di consulenza, il tempo si potrebbe protrarre fino a massimo 180 giorni dalla data di avvio iter di certificazione».
Export d’Arabia
Il mercato mediorientale pertanto ha le sue regole e i suoi codici, ma ha comunque fame di prodotti occidentali, e gli imprenditori italiani che sono già attivi in questa direzione lo confermano. Pertanto sono mercati da non accantonare, persino se il core business dell’azienda è Haram. Ci vuole solo un guizzo imprenditoriale, quello in grado di far comprare anche il ghiaccio agli eschimesi. In questo caso qualcuno sta riuscendo a vendere spumante ai musulmani. In che modo? Togliendo l’alcol e tenendo le bollicine. E’ l’idea delle cantine Bosca, che ha recentemente varato il Toselli Halal, per intercettare quella voglia di Occidente che cova a Oriente rispettandone le usanze. «È proprio da questa idea che siamo partiti – racconta Pia Bosca, CEO di Bosca SpA – Ormai fatichiamo ad identificare un mercato con un Paese, soprattutto per questo prodotto. Il mercato dell’Halal ora è trasversale. Sono sempre di più coloro che seguono i dettami della Sharia anche in occidente. La diffusione di un prodotto senza alcol come Toselli Halal ha anche lo scopo di contribuire all’integrazione di chi vuole vivere con pienezza nella società occidentale senza derogare ai propri principi. La convivialità, che in Occidente passa anche per un bicchiere di bollicine, è il primo mezzo di integrazione». Dunque è ancora il mercato occidentale quello trainante per un prodotto del genere, ma è l’export verso i paesi islamici ad essere probabilmente il fulcro di questa operazione: «La nostra strategia d’impresa è sempre stata quella di cercare mercati e prodotti nuovi. Abbiamo iniziato a diffondere Toselli Halal in Nigeria, puntando ad un’espansione in tutta la zona del Gabon, Ghana, e Senegal. Alcune significative storie di successo cominciano ad esserci, ma il potenziale di crescita è ancora molto ampio». Un nuovo mercato in cui, con attenzione e conoscenza, c’è molto spazio in cui inseririrsi. «Tutti i prodotti made in Italy dovranno fare i conti con questa fetta sempre più importante di consumatori le cui necessità dovranno per forza essere tenute da conto – continua Pia Bosca – Vale lo stesso discorso per i paesi islamici, anche se l’interesse del consumatore a prodotti che non fanno parte della loro cultura e derivati delle nostre abitudini si svilupperà in maniera più lenta».