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Negli ormai lontani anni ’60, che oggi ci richiamano alla mente un’Italia fatta di fotografie sbiadite che ritraggono gente sorridente che va in Vespa o in 500, il debito pubblico italiano ammontava a circa il 30-35% del nostro PIL.
In pratica potevamo vantare un indebitamento che oggi costituirebbe all’incirca la metà della soglia del 60% richiesta dal patto di stabilità: un valore che il resto d’Europa ci invidierebbe e che farebbe sembrare l’austera e robusta Germania la patria degli scialacquatori. Questo dato sembra ancora più incredibile se pensiamo seriamente alla situazione in cui versiamo oggi: ogni giorno rischiamo di essere stritolati nella morsa della speculazione finanziaria che ci vede come una preda facile sui mercati. Un debito pubblico così alto è un fardello che ci portiamo dietro da decenni e che, salvo rare eccezioni, i governi che si sono susseguiti hanno contribuito in modo imprudente ad accrescere progressivamente, ben oltre la soglia di guardia. Basti pensare che, rimasto sotto quota 60% del PIL fino all’inizio degli anni ’80, nel giro di un decennio – quello scintillante della Milano da bere e dello yuppismo – raggiunse il 100%, per poi oltrepassare quella soglia nei drammatici primi anni ’90, nei quali la nostra economia rischiò davvero il collasso.

Come siamo arrivati tutto questo?
In primo luogo come non ricordare i titoli di stato con rendimenti a doppia cifra, che i governi emisero in grandi quantità e che la generazione dei sessantenni di oggi comprò entusiasta, non sembrando vero potersi intascare un investimento che appariva sicuro e allo stesso tempo così redditizio (quando purtroppo la compresenza di alti rendimenti e bassi rischi è per definizione un miraggio…). Pensiamo poi alla marea di enti inutili costituiti nei decenni passati che continuano a tutt’oggi a drenare risorse pubbliche. Il grandissimo e mai troppo compianto Indro Montanelli in una sua intervista degli anni ’90 ricordava come in una sua inchiesta condotta anni prima per il Corriere si era imbattuto in un ente pubblico il cui scopo era ancora costituito formalmente dal sostegno economico ai familiari dei martiri dello Spielberg, ossia il carcere boemo in cui l’impero austriaco rinchiudeva i carbonari italiani quali Pellico e Maroncelli, a più di 50 anni di distanza dalla dissoluzione di quel medesimo impero e a più di 100 dalla morte di quegli stessi carbonari.
Questi sono solo due casi, ma mostrano in modo eloquente come all’accumulo del debito abbiamo contribuito anche noi cittadini italiani, che per una ragione o per l’altra avevamo di che guadagnarci nel breve periodo, e abbiamo colpevolmente – per ottusità o malafede – ignorato le gravissime conseguenze che tali imprudenze avrebbero comportato a lungo termine per le generazioni a venire.

E’ importante assumerci quindi questa nostra responsabilità per due motivi: innanzitutto perché ci dovrebbe servire di lezione per il futuro, non facendoci cadere nuovamente in tentazione; ma soprattutto perché è giunto il momento che i privilegi iniqui che umiliano le giovani generazioni siano repentinamente recisi, che lo stillicidio continuo e incessante che erode il gettito fiscale (che altro non è se non il denaro elargito allo stato dai cittadini onesti) si interrompa una volta per tutte. Su questo dobbiamo convenire tutti perché il rischio vitale che corre la nostra economia comporterà sicuramente sacrifici che debbono essere ripartiti in modo equo e proporzionale tra le fasce di cittadini più e meno abbienti, senza frizioni, nel quadro di una presa di coscienza collettiva. Costituirebbe infatti solo un’aggravante della situazione sopra descritta contrapporre a situazioni insostenibili risposte inique: una medicina nociva quanto il morbo che sono preposte a curare.
In merito poi a quanto dovrà essere deciso in termini di risanamento, non bisogna dimenticare che qualsiasi sistema economico, per garantirsi uno stabile equilibrio, deve non solo ridurre le uscite non strettamente necessarie, ma deve soprattutto incrementare le proprie entrate, che, per uno Stato sono alimentate in modo precipuo dallo sviluppo di attività produttive che garantiscano un aumento del PIL. Questo genere di misure, presentando elementi aleatori, e avendo effetti vitali ma solo differiti nel tempo, spesso passa in secondo piano nell’agenda dei politici e dei tecnici che devono lavorare ad un veloce risanamento delle finanze statali. Al contrario, sarebbe salutare per il nostro paese che il nodo della crescita economica fosse affrontato subito ed efficacemente.
Da troppo tempo ormai sono stati versati in ambienti industriali, politici e accademici fiumi di parole sulla ricetta che dovrebbe in teoria rilanciare la nostra economia vacillante, e ogni volta si richiamano concetti come “investimenti in ricerca”, “nuove tecnologie”, “conquista dei mercati emergenti”, “fare sistema”. Parole che a riunione terminata in genere restano tali.

Ora sarebbe bene che invece si diffondesse una preferenza collettiva per i fatti, per l’impegno in prima persona, per le idee messe in campo spendendo la propria reputazione e la propria faccia.
è giunto il tempo della responsabilità, attributo che gli italiani hanno nella loro storia saputo tirar fuori quasi solamente nei momenti di emergenza, e – va detto – con risultati in tali occasioni anche molto positivi. Se anche questa volta riusciremo a cavarcela, lo capiremo nel giro di pochi mesi. Per ora non ci resta che spendere, ciascuno pro parte sua, tutta la nostra determinazione e sperare che per una volta ancora il miracolo si ripeta.
Un miracolo fatto di uomini, non di giochi di prestigio politici, né tantomeno di parole.