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Capita sempre più spesso di seguire in televisione o alla radio dei dibattiti aventi ad oggetto il difficile rapporto tra i giovani e il mercato del lavoro nei quali si sottolinea come una porzione consistente dei laureati non riesca a trovare un’occupazione coerente con il percorso di studi seguito. Al di là delle molteplici cause del problema, ciò che è più interessante è in questo caso la soluzione che sento sempre più di frequente avanzare per arginare tale spiacevole fenomeno: la necessità che i giovani italiani riscoprano il lavoro manuale, in quanto sarà l’unico che in futuro garantirà loro un’occupazione. A mio avviso tale affermazione, così formulata, non solo denota una profonda ignoranza in tema di sviluppo economico, ma promuove anche una politica suicida per il futuro del nostro paese. Infatti, i paesi occidentali, se vogliono continuare a ritagliarsi uno spazio in uno scenario dominato dall’avanzata dei paesi emergenti, devono puntare su quelle tecnologie sofisticate che questi ultimi stentano ancora a inserire nei loro mastodontici apparati produttivi, ossia biotecnologie, nanotecnologie, software e meccanica avanzata. A questo traguardo si può arrivare solo investendo sulla ricerca e lo sviluppo applicato ai beni di consumo. Anche in questo caso quindi il valore aggiunto non è costituito dalla sola perizia della manodopera, ma soprattutto dalle intuizioni dei ricercatori. La soluzione quindi non è esortare i giovani laureati a stracciare al propria laurea e darsi al lavoro manuale ma al contrario spingerli a formarsi meglio, imparando le lingue e aggiornando le proprie conoscenze in merito alle più recenti tecnologie, per essere realmente competitivi e contribuire a quel sospirato salto in avanti della nostra economia che aspettiamo da quasi vent’anni. Con ciò non voglio assolutamente disprezzare o sminuire il lavoro manuale, che resta comunque la spina dorsale di qualsiasi sistema industriale. Disprezzo invece quei Soloni dell’economia e della politica che consigliano ai giovani non di arricchire ma di depauperare la propria formazione, mostrando una spiccata miopia e una profonda ipocrisia, in quanto nella maggior parte dei casi questi dispensatori di formule vincenti il lavoro manuale non l’hanno mai visto, nemmeno ai tempi delle superiori per pagarsi le vacanze estive. Il problema va invece impostato in termini diversi: le università italiane spesso non formano a sufficienza, non sono competitive nel mercato globale della conoscenza. Sui motivi di tale inefficienza potremmo scriverci un trattato, per ora basti dire che le responsabilità vanno addebitate sia a un’ampia fascia di personale docente vetusto che non si aggiorna e non viene valutato per ciò che effettivamente produce, sia a una classe politica che si limita a concepire l’università come un bene improduttivo, i cui finanziamenti possono essere piacevolmente tagliati senza provocare rilevanti conseguenze.
In conclusione, guardate con sospetto e preoccupazione chiunque voglia farci retrocedere al livello dei paesi in via di sviluppo, invece di promuoverci nella competizione tra le eccellenze, in quanto il mercato globale non consente la sopravvivenza di attori mediocri, che si accontentino di vivacchiare, ma solo di coloro che, con ingenti sacrifici, sappiano costantemente rilanciarsi e mirino ad obiettivi sempre più ambiziosi.

One Comment

  • Andrea Montanari ha detto:

    Caro Federico,

    concordo pienamente con le tue tesi. La tua analisi dell’università italiana non fa una pecca, da che deduco tu ne abbia una visuale da “interno”. Studio (e lavoro) in un ateneo che, in quanto a ricerca e finanziamenti alla stessa, è quasi completamente a terra. Mi occupo di storia contemporanea e, di conseguenza, si dirà, sarò un futuro non-occupato. Sbagliato. E ti spiego brevemente il perché, ricollegandomi al titolo di questa rivista on-line (che scopro solo oggi). Nel mio piccolo, e con tutti i conseguenti limiti, ho fatto della mia Cultura Storica un’Impresa (le maiuscole non sono a caso). O, meglio, ho affrontato i miei studi con spirito di imprenditore. E ciò non significa pensando all’immediato profitto; anche il peggior imprenditore sa che solo il lungo periodo gli offrirà un “ritorno” dell’investimento iniziale. Fare della Cultura un’Impresa significa infondere in essa passione, dedizione, cura quotidiana ma, soprattutto, difendere la Cultura stessa, accudirLa, cercare per quanto ci è possibile di rinnovarLa, sempre e comunque. Essere, in poche parole, LABORATORIO DI SE STESSI. Proprio perché, come giustamente sostieni, “il mercato globale non consente la sopravvivenza di attori mediocri, che si accontentino di vivacchiare, ma solo di coloro che, con ingenti sacrifici, sappiano costantemente rilanciarsi e mirino ad obiettivi sempre più ambiziosi”. Certo, i rischi e le insidie sono dietro l’angolo. Un buon Imprenditore, facendosi spaventare da tutto ciò, si farà però promotore di una “politica suicida per il futuro del nostro paese” e, mi permetto di aggiungere, anche per il proprio.

    Ciao e grazie dello spazio concessomi
    Andrea (Reggio Emilia)