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Dicesi “quaquaraquà” uomo senza spina dorsale, pavido e inconcludente, il peggio del peggio, inutilità inutile, “nuddu ammiscatu ccu nenti” come si dice in Sicilia. Del resto è l’ultimo anello di una catena di categorizzazione umana ben definita, composta dagli “uomini, dai mezzi uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) piglianculo” e appunto i quaquaraquà. La citazione proviene dal celebre romanzo di Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta. Per questo motivo moltissimi la usano pensando che sia una definizione calzante e nobile, inventata dal grande scrittore siciliano per definire in modo lampante le diverse condizioni dell’umanità. Un errore madornale, perché a questi moltissimi sfugge probabilmente che Sciascia fa pronunciare quest’invettiva ad un padrino mafioso, don Mariano Arena, il quale con tale ragionamento sbrigativo pretende di rivelare in questo modo la vera natura dell’uomo al capitano carabinieri Bellodi, ex partigiano di Parma e integerrimo difensore della legge. Chi dunque usa l’espressione “quaquaraquà” per definire una persona non prende in prestito le parole di Sciascia, ma le parole che il grande scrittore siciliano mette in bocca ad un mafioso, per dimostrare il cinismo e la sbrigatività di pensiero della mentalità criminale di Cosa Nostra. E non è certo una distinzione di puntiglio, ma di (molta) sostanza.