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Ne abbiamo sentito parlare e ne abbiamo parlato. Per qualcuno è un trend, per altri è solo trendy. L’Industria 4.0 è ormai un tema sulla bocca di tutti, anche se non tutti hanno ancora l’esatta percezione di cosa è, di cosa può diventare e di cosa può portare. La quarta rivoluzione industriale è partita e l’unico errore in questo momento è restare immobili. Inseguirla, cavalcarla o guardarla correre aspettando il momento per aggredirla? Bisogna saper scegliere con attenzione, magari iniziando ponendosi una domanda: noi siamo davvero pronti?

La quarta rivoluzione industriale è ovunque. La vediamo nelle smart factories dei colossi produttivi, così come nelle startup innovative che spuntano nel sottobosco dell’imprenditoria proprio come porcini in montagna dopo le piogge autunnali. L’abbiamo sotto gli occhi nella realtà aumentata delle applicazioni degli smartphone, nella domotica, nella gestione dei big data e in mille altre cose ancora a cui ormai quasi non facciamo più caso perché sono entrate a far parte della nostra vita stabilmente da tempo.

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Cristiano Benassati

Un nuovo patto?
La nuova rivoluzione industriale ha preso piede, e potrebbe presto tagliare fuori molte imprese che non vogliono o non possono stare al passo. E allora la domanda che ogni imprenditore deve farsi è, oggi è ancora sufficiente seguire semplicemente i trend economici, o è necessario imparare a rischiare e provare ad anticiparli? A questo ha risposto Cristiano Benassati, presidente della fondazione di ricerca scientifica Gtechnology. «Seguire i trend economici ha funzionato in una situazione geo-politica in cui poche grandi realtà, come le multinazionali e le grandi economie, stabilivano l’indirizzo tecnologico e influenzavano direttamente la domanda. Molte delle necessità e dei bisogni che abbiamo sono stati creati grazie a proposte di questo tipo. Il mondo, nel frattempo, è molto cambiato e mai come oggi i nuovi bisogni nascono dal basso, ovvero direttamente dai consumatori. È sul fare innovazione, sul crearsi un vantaggio competitivo reale e concreto che si giocherà la partita nel prossimo ventennio».
Industria 4.0 come patto di collaborazione e mutua crescita tra produttori e consumatori quindi? «La nuova rivoluzione industriale ha come centro assoluto il consumatore, il cliente, l’uomo – continua Benassati – Concetti come customizzazione di massa, personalizzazione dei contenuti e produzione ad hoc caratterizzeranno sempre più il comparto manifatturiero. Lo vediamo già, ad esempio, nell’automotive: Volvo dichiara che su 80.000 camion venduti, solo 2 sono identici. Lo stesso varrà presto anche per un paio di scarpe o per l’ultimo modello di smartphone. Non dimentichiamo, inoltre, che per la prima volta stiamo assistendo all’evoluzione delle interfacce uomo-macchina: non è più necessario che l’uomo impari il linguaggio della macchina, ma sono gli automi che ora riescono ad interpretare i bisogni degli esseri umani, anche se questi sono espressi in linguaggio naturale. E tutta questa tecnologia, solo vent’anni fa relegata ai libri di fantascienza, sarà sempre più scalabile, economica ed accessibile alle masse, dapprima chiaramente nei Paesi economicamente avanzati, ma poi anche nelle economie emergenti».

La mente non mente
Ma sarebbe un errore ricondurre questa quarta rivoluzione industriale in pieno divenire, come una mera trasformazione riguardante solo i processi di fabbricazione. I cambiamenti in atto coinvolgono anche la distribuzione, la vendita, la pubblicità e in genere tutto quello che comprende la sfera del marketing, e in forma tutt’altro che marginale. Per riuscire a far centro in questo campo, mai come oggi si dovrà fare breccia in un settore specifico: la mente. Avete presente cos’è il neuromarketing?
Se non aveste presente di cosa si sta parlando, ci presenta l’argomento Riccardo Trecciola, lead researcher del Lab di Neuromarketing Gtechnology. «Il neuromarketing misura la comunicazione come se fosse un processo produttivo. Il prodotto è il messaggio e il processo produttivo parte dalla sua ideazione e termina quando è stato consegnato al cliente. Il messaggio è un bene che deve essere prodotto in funzione non solo di come verrà recepito, ma anche di quanto verrà recepito. Il cervello è dunque parte fondamentale della catena produttiva e la sua capacità di assimilare informazioni in un tempo circoscritto è limitata, soprattutto quando queste informazioni non catturano l’attenzione e non sono memorabili». Il tempo pertanto diventa un fattore determinante perché scarseggia, sia quello che il consumatore riserva alla scelta dell’acquisto o del bene, sia quello da dedicare alla progettazione, realizzazione e perfezionamento del bene in questione. Il tempo è denaro, e non c’è nulla di rivoluzionario in questo vecchio adagio, ma è sul modo di ottimizzare il tempo che si gioca la partita.
«Il neuromarketing, come i processi industriali, non è in grado di piegare il tempo ma può misurare la comunicazione in modo tale da non disperdere blocchi di tempo aumentando l’efficacia di comunicazione. – prosegue Trecciola – Il neuromarketing aumenta la velocità di comunicazione, comprime lo spazio e non fa disperdere il tempo. Ogni messaggio che si vuole comunicare ha con sé un certo livello di attrattività, memorabilità e complessità. Questi oggetti creati per trasportare il messaggio lo faranno in modo più o meno efficace per la loro forma, le parole utilizzate la leggibilità la loro saturazione e via dicendo. In materia di comunicazione, fino ad ora abbiamo sempre e solo puntato all’efficacia ma mai all’efficienza. Il neuromarketing misura il tragitto che fanno questi veicoli, monitorando come vengono acquisiti dagli occhi, come il cervello li riceve e solo successivamente li giudica. Crea in sostanza un parallelo tra processi industriali e processi cognitivi. La responsabilità crescente del design dei processi industriali non può non interrogarsi sulla misurazione della comunicazione specialmente se domani inventeremo macchine capaci di correggere errori in autonomia molto distanti dai processi industriali. Nel prossimo futuro compito sarà quello di giudicare l’operato di macchine che dialogheranno in autonomia e tenteranno di correggere i nostri errori. Nel caso in cui non dominassimo la cultura della comunicazione non capiremmo la rivoluzione in atto».

The Italian Way
La rivoluzione industriale e tecnologica però già ci circonda, segno che in molti ci hanno creduto e hanno investito a testa bassa. Il mondo è in movimento insomma, e l’Italia?
Nel nostro paese sull’argomento c’è molto fermento: se ne discute, ma non ci si limita solo a discussioni di concetto. Mentre in alcuni paesi occidentali, come gli Stati Uniti, investimenti e cabine di regia sono nelle mani di consorzi privati composti da big player dell’industria informatica ed elettronica, in Italia (come del resto in Europa) si muovono i governi centrali. L’Industria 4.0 è un traguardo a cui l’economia italiana guarda con molta speranza e verso cui si lavora anche come indirizzo politico, con un Piano nazionale Industria 4.0 appena varato dal governo che prevede una serie di direttive, investimenti e provvedimenti per incanalare la rivoluzione industriale dal 2017 al 2020.
Cosa può rappresentare (e può fare) l’Industria 4.0 per un paese come l’Italia? Il nostro paese è di certo un paese dalle forti peculiarità artistiche e culturali, ma non sempre ai vertici per lo sviluppo delle tecnologie d’avanguardia. Per questo motivo in Italia sarà necessario trovare un modo tutto nostro, per sviluppare in pieno una rivoluzione industriale che non può andare a rincorrere sullo stesso terreno economie più forti o tecnologicamente più sviluppate.
«Industria 4.0 rappresenta un nuovo paradigma industriale, al quale è necessario che le aziende italiane si conformino, se non vogliono correre il rischio di essere estromesse dalla competizione sala2sui mercati nazionali e internazionali – spiega l’avvocato Alberto Improda, autore del saggio Italian Soul, sui rapporti tra economia e cultura, edito nel 2015 da Mincione Edizioni – I presupposti di fondo di tale innovativo paradigma industriale, però, sono gli stessi per tutte le economie, almeno per quanto riguarda i Paesi del mondo occidentale. Quindi, per garantire un vantaggio competitivo alle nostre imprese, dobbiamo avere l’ambizione di tracciare una originale “via italiana” a Industria 4.0. Questa particolare via può nascere soltanto da inedite forme di contaminazione tra l’universo dell’Impresa e gli ambiti della Cultura, intesa in senso lato. La Cultura, nell’ottica sopra indicata, riveste una cruciale importanza sotto diversi punti di vista. Essa, in primo luogo, rappresenta una sorta di formidabile fertilizzante per la crescita dell’Innovazione. Secondo molti e autorevoli studi, infatti, i territori che si caratterizzano per i più alti livelli di vivacità e di partecipazione culturale sono quelli che dimostrano anche le maggiori capacità innovative. Nello sviluppo di Industria 4.0, inoltre, le scienze umanistiche non saranno estromesse dal processo, ma vi daranno impulso e ne saranno a loro volta influenzate: basti pensare alle iniziative già in atto sulle cosiddette digital humanities. Di certo non c’è bisogno di particolari discorsi, per argomentare sulla centralità del nostro Paese in tema di cultura umanistica.»
E probabilmente quello che è stato continuerà a servirci per il futuro. Il brand Made in Italy ad esempio, è sempre un asso nella manica da giocare, anche ai tempi dell’Industria 4.0? L’avvocato Improda non sembra aver dubbi in merito. «La cultura può rappresentare la cifra distintiva di una via italiana a Industria 4.0 anche per un ulteriore motivo: l’italianità delle nostre produzioni, come ormai sostanzialmente pacifico, rappresenta ovunque nel mondo un valore aggiunto per le nostre imprese. Questo non solo riguardo ai settori merceologici per i quali il concetto risulta più intuitivo (moda, food, arredamento), ma anche con riferimento a comparti industriali che sembrerebbero avulsi dal ragionamento in esame (meccanica, meccatronica, automotive, etc.). Personalmente ritengo che l’espressione Made in Italy sia indicativo solo in maniera parziale di questo fenomeno, che preferisco rappresentare con le parole di Italian Soul. E l’Italian Soul, o Made in Italy che dir si voglia, trova nella cultura la sua chiave di lettura più autentica, il suo nucleo pulsante più vivo e vitale. La sfida dei prossimi mesi, anzi delle prossime settimane, sarà quella di passare dai concetti astratti alle azioni operative, per determinare di fatto innovative forme di ibridazione tra impresa e ultura, mediante la creazione di nuovi strumenti agevolativi e l’adattamento di misure incentivanti già esistenti. E’ da tale sforzo di contaminazione, da questa spinta verso l’ibridazione, che dovrà scaturire la via italiana a Industria 4.0, per garantire un tangibile vantaggio competitivo alle nostre imprese e una fase di nuovo sviluppo all’intero Paese”.

Anthony-Smith

Anthony Smith

Pronti? Check up!
Come fa un imprenditore agguerrito e fiducioso nella propria azienda a non avere voglia di intraprendere il viaggio nel promettente mondo dell’Industria 4.0? Attenzione però, quando si inizia un viaggio impegnativo si controlla per bene la propria auto. E non è un accostamento troppo azzardato. Anthony Smith, executive business coach di successo, ci spiega meglio il concetto: «Secondo la mia esperienza, nella vita di un’azienda posso risuonare dodici sintomi d’allarme che possono comprometterne i risultati. Prima di buttarsi in cose nuove, per esempio modifiche e potenziamenti alla struttura aziendale, investimenti in automazioni, robotizzazioni, meccatronica o qualsiasi altro elemento che fa parte del mondo dell’industria 4.0, è fondamentale guardarsi nello specchio e saper valutare le proprie condizioni. Se non lo si fa, ci si troverà a gestire la solita confusione e in più i nuovi problemi generati da innovazioni impiantate in un’azienda che da prima non filava in modo perfettamente affidabile. Ci sono problematiche legate alla gestione dell’azienda come i flussi di cassa o il controllo dei costi, ma molte altre sono legate alla gestione del personale. Uno dei sintomi ad esempio può essere il fatturato insoddisfacente: a volte si pensa che bisogna intervenire sui venditori, si pensa che non siano abbastanza capaci. All’esame della situazione invece il problema si rivela essere un altro e stare a monte: ai piani alti dell’azienda la strategia commerciale non è chiara e confonde le idee ai venditori mettendoli in difficoltà. Se un’azienda vuole muoversi verso un nuovo modello di business o verso nuove prospettive tecnologiche offerte dalla nuova rivoluzione industriale vuol dire che ci sarà anche una rivoluzione delle dinamiche aziendali, e l’impresa deve essere ben pronta ad assimilarle. Sarà probabilmente necessario anche accogliere nuove competenze, e sarà necessario saper inserire le persone giuste e saperle integrare con la struttura preesistente. Un altro sintomo ancora è la presenza di un comportamento accentratore e tuttofare dei manager: il fattore è indicativo del problema che non c’è fiducia nel personale subordinato, o che questo personale non sia stato istruito a risolvere problemi che di norma non andrebbero presi in carico dai manager. Insomma, dare per scontata l’efficienza della propria azienda è il primo errore capitale: manager, imprenditori e dirigenti devono essere disposti a mettersi in discussione, a riflettere, a crearsi dei dubbi per migliorare davvero l’azienda».
La medesima avvertenza arriva da Davide Caiti, presidente di Kaiti expansion e creatore del format Conoscitestesso, quest’anno giunto alla quarta edizione. Durante tutti gli appuntamenti degli anni precedenti, gli imprenditori, i manager e i professionisti partecipanti sono sempre stati stimolati a mettersi in discussioni, a prendere in esame le zone più trascurate della propria mentalità imprenditoriale e ad abbattere credenze sclerotizzate per generarne di nuove e più produttive. «È entusiasmante per un imprenditore inseguire un progresso tecnologico in grado di abbattere barriere su barriere, perché gli permetterà senza dubbio di migliorare i propri prodotti o servizi, idearne di nuovi e quindi di far crescere la propria azienda – spiega Davide Kaiti – molto spesso però, prima di correre dietro alla rivoluzione, imprenditori e manager dovrebbero essersi assicurati di avere una conoscenza davvero approfondita della propria azienda. Può sembrare un discorso paradossale, perché come fa un imprenditore a non conoscere la propria azienda, se è la propria azienda? Eppure posso assicurare che è l’errore più comune che verifichiamo ogni volta ai nostri clienti durante i nostri check aziendali, il tassello mancante e decisivo che spesso può mandare a monte sforzi, tempo e investimenti. Ci sono moltissimi elementi disseminati nelle aziende che ne appesantiscono il funzionamento. Spesso, per fare solo un esempio, le comunicazioni e le dinamiche interne non sfruttano gli strumenti digitali, quando tutti noi ormai nella vita quotidiana viviamo iperconnessi. Conoscere le potenzialità e i punti di forza della propria azienda – tra dipendenti, clienti e fornitori – è l’aspetto essenziale, e al contempo il più trascurato, per un vero successo nel proprio business».

Partner affidabili
Un’altra condizione essenziale per partire senza errori è sicuramente quella di avere al proprio fianco partner affidabili, dai collaboratori ai fornitori. E la tranquillità di avere spalle coperte, come conferma Stephane Vacher, responsabile comunicazione di Banca Fideuram, main partner di questa quarta edizione di Conoscitestesso. «Nel corso degli ultimi anni, abbiamo constatato che l’esigenza dei nostri clienti è sempre più quella di potersi confrontare con un interlocutore unico per ogni aspetto legato al loro patrimonio complessivo, non solo per la componente finanziaria – spiega Vacher – Per questo, dopo aver affermato la nostra leadership nell’ambito della consulenza finanziaria, in Fideuram stiamo vivendo una evoluzione molto importante: ci siamo dotati di un modello di consulenza globale e di una struttura dedicata, per poter soddisfare le esigenze dei clienti attraverso un approccio multidisciplinare. Questo vuol dire ampliare il perimetro della consulenza dagli asset solo finanziari a tutte le componenti patrimoniali del cliente; dagli asset privati a tutti gli asset del cliente, inclusi quelli legati alle sue attività imprenditoriali; da una gestione individuale a una gestione per nucleo familiare, in ottica anche transgenerazionale. In questo, sentiamo di avere una grande responsabilità. Infatti, la ricchezza del nostro Paese è, da un lato, la ricchezza privata delle famiglie; dall’altro, un tessuto imprenditoriale estremamente ricco e dinamico ma molto frammentato, costituito da aziende spesso meno preparate, rispetto a quelle di maggiori dimensioni, ad affrontare momenti di crisi e a gestire il passaggio generazionale, tema sul quale supportiamo i nostri clienti e su cui abbiamo scelto di puntare con grande decisione sin dal 2013».