Skip to main content

I Big Data stanno cambiando radicalmente il modo di fare business. Ogni tre anni, il volume di dati trasmessi raddoppia, le informazioni si riversano nelle mani delle aziende dalle piattaforme digitali, dai sensori wireless, dalle applicazioni di realtà virtuale, e da miliardi di telefoni cellulari. La capacità di memorizzazione dei dati (data storage) è aumentata, mentre il costo della loro archiviazione è precipitato. Solo in Italia, il mercato dei “grandi numeri” ha raggiunto nel 2016 un valore 183 milioni di euro, in crescita del 44% rispetto all’anno precedente.

Gli “scienziati dei dati” hanno oggi a disposizione strumenti con una potenza di calcolo senza precedenti, e stanno mettendo a punto algoritmi sempre più sofisticati. I settori in cui ci si aspetta un impatto maggiore sono quelli dei servizi basati sulla geolocalizzazione, oltre a healthcare e retail banking. Infatti, entro il 2030 il 15-20% dei trasporti di persone potrebbe avvenire attraverso le piattaforme di ride sharing e car sharing. Nell’healthcare, invece, l’impatto dei big data potrebbe ridurre i costi della sanità di almeno 2 mila miliardi di dollari solo negli Stati Uniti e nel retail banking l’impatto potrebbe essere compreso tra i 110 e 170 miliardi di dollari.

Insomma, i big data possono sconvolgere intere industrie, come sottolinea un nuovo rapporto del McKinsey Global Institute, The age of analytics: Competing in a data-driven world. Negli ultimi 6 anni la gamma di applicazioni dei big data nell’industria è cresciuta esponenzialmente, tanto che, oggi, la domanda che le aziende dovrebbero porsi è come integrare i dati nelle operazioni e nella strategia. Per posizionarsi, le aziende devono incorporare i sistemi di analisi dei dati (data analytics) nella propria visione strategica e usarli per prendere decisioni migliori e più rapide.

Non è un caso che i più famosi “unicorni” del business tecnologico siano proprio quelle società il cui business model è stato sin da subito fondato sui big data e sugli analytics – ad esempio Uber, Airbnb, Snapchat, BlaBlaCar, Spotify. Ma non solo: le società più grandi a livello mondiale hanno intuito sin da subito il potenziale trasformativo dei big data e stanno oggi utilizzando la grandissima mole di informazioni e di talenti a loro disposizione per inserirsi in nuovi settori, aggiungendo nuove linee di business. Queste aziende possono sfruttare le loro dimensioni e i dati che raccolgono per, e questo tipo di espansione sta sempre più sfumando i tradizionali confini tra le industrie: ad esempio, Apple e Alibaba hanno introdotto prodotti e servizi finanziari, mentre Google sta sviluppando automobili a guida automatica.

Adattarsi ad un’epoca in cui il processo decisionale è guidato dai big data non è sempre semplice. La prima sfida sta nell’incorporare i dati e l’analisi degli stessi nella visione strategica dell’azienda. Il passo successivo è quello di sviluppare processi di business che includano un utilizzo corretto e un’analisi puntuale dei big data, quindi adottare le migliori tecnologie e attrarre i migliori talenti professionali in grado di usarle. Limitarsi ad applicare i nuovi sistemi tecnologici, per quanto potenti, alle operazioni di business esistenti non è sufficiente. È necessario un totale ripensamento dei modelli e delle strategie aziendali che parta dal management e permei tutte le iniziative della società.

E la “guerra” per attirare i migliori talenti non è da sottovalutare. La ricerca evidenzia come già oggi, secondo i dirigenti delle aziende, la sfida più grande sia proprio quella di reclutare professionisti che siano in grado di analizzare i dati e integrarli nella strategia di business. Il 50% degli executive ha riportato una maggiore difficoltà nel trovare questo tipo di talenti rispetto a qualsiasi altro professionista, e secondo il 40% dei manager è sempre più difficile tenere questi talenti con sé proprio a causa della grande richiesta nelle aziende. In particolare la figura più ambita è quella del cosiddetto data scientist: sebbene negli USA proliferino i corsi universitari volti a formare questi professionisti, che porteranno un aumento dell’offerta del 7% all’anno, si prospetta che la percentuale di crescita della domanda sarà del 12% annuo – che genererà un gap di 250.000 figure professionali. Anche in Italia è iniziata la caccia agli scienziati dei dati: nel 2016, il 30% delle aziende italiane ha reclutato un data scientist e il 7% ha codificato il ruolo in un job title ufficiale all’interno del suo organico (nel 2015 ci si fermava al 4%). Ma saper leggere i dati non è sufficiente: un altro ruolo di importanza vitale sarà quello del business translator, ovvero quella figura atta a mediare tra il data scientist e le richieste del business: secondo McKinsey, nei prossimi 10 anni la domanda oscillerà tra i 2 e i 4 milioni solo negli Stati Uniti.

Questi numeri parlano chiaro: l’accesso ai big data e al loro utilizzo intelligente sta già rivoluzionando il modo di fare business. Tanto che alcune aziende, messe di fronte alla complessità di analizzare enormi blocchi di informazioni, hanno deciso di risolvere il problema acquisendo le start-up che si occupano di dati: basti pensare a Microsoft che nel 2015 ha comprato la start-up di data analytics Metanautix, o alla società provider di software SAP che ha acquisito Altiscale, start-up di stoccaggio e analisi dei big data nel cloud. Insomma, se pensate che la vostra azienda non possa gestire autonomamente i dati, questa potrebbe essere la strada giusta da percorrere. Perché, se usate bene, le inesauribili informazioni che costituiscono i big data permetteranno alle imprese di non basare la propria strategia sull’istinto ma su vere e proprie prove, per prendere decisioni più veloci, calcolare meglio il rischio e fare previsioni infinitamente più accurate. È iniziata l’era della verità.

(a cura dell’Ufficio Studi P101)