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E SAPETE UNA COSA? C’È ANCORA. SAPPIAMO PORTARE I NOSTRI PRODOTTI ALL’ESTERO, DOVE IL MARCHIO ITALIANO CONTINUA AD AFFASCINARE. L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE AZIENDE ITALIANE PERÒ NON SI SVILUPPA DAVVERO QUANTO POTREBBE. QUESTO ACCADE (ANCHE) PERCHÉ CONTINUIAMO A RISPETTARE UN’ALTRA ANTICA TRADIZIONE DELL’IMPRENDITORIA ITALIANA: QUELLA DI VOLER FARE SEMPRE TUTTO DA SOLI…

24285729_xlSono lusinghieri i risultati dell’export 2015 per l’economia italiana: a livello commerciale, l’Italia ha avuto esportazioni nel 2015 pari a € 413.882 milioni, importazioni pari a € 368.716 milioni producendo una bilancia commerciale positiva per € 45.166 milioni, confermando quindi la tendenza italiana ad essere un’economia export oriented, questo grazie alla sua diffusa industria manifatturiera che include numerose eccellenze produttive. Per arrivare a questo traguardo l’Emilia-Romagna ha dato un sostanziale apporto, pari al 13,4% del totale nazionale; un dato che accompagna analoghe crescite in termine di Pil, occupazione e investimenti, offrendo una dimostrazione in più – qualora fosse necessario – che le esportazioni sono il premio finale di un’economia che gira a regime, ma anche al contempo il suo migliore lubrificante. Anche l’economia della provincia di Reggio Emilia si fa valere, con valori lusinghieri nel primo trimestre 2016: un aumento dell’export del 2,4% rispetto allo stesso periodo nell’anno precedente. Insomma, bisogna dire che un’economia in ripresa – come appare la nostra in questo periodo – faccia necessariamente passare la propria linfa vitale dalla propria capacità di saper esportare efficacemente la propria produzione, nel saper affrontare il mercato alla prova del confine e trovare una sua dimensione internazionale.

Il valore internazionale
Che l’internazionalizzazione sia la chiave di volta della crescita economica, lo conferma ad esempio una recente ricerca condotta dalla SDA Bocconi assieme all’agenzia EY sull’analisi delle strategie delle imprese di maggior successo internazionale. La ricerca ha preso in considerazione i principali dati economici e finanziari per il periodo 2005-2014 di 115 società internazionali e 112 non internazionali prevalentemente operanti nel settore manifatturiero italiano, per l’84% del campione localizzate nel nord Italia e per il 65% dei casi a proprietà familiare. In media i ricavi di queste imprese risultano essere prodotti per il 65,5% all’estero. I risultati ottenuti evidenziano come le imprese di grande dimensione (che siano internazionalizzate o focalizzate unicamente sul mercato domestico) abbiano assistito a una crescita costante dei propri asset nell’orizzonte temporale, compreso il periodo di crisi economica. La redditività è però stata diversa, in quanto le imprese internazionalizzate sono riuscite a creare valori medi molto più alti.
Le società internazionalizzate hanno reagito alla crisi finanziaria ottimizzando la struttura del capitale, riducendo i livelli di debito in favore di un maggiore ricorso a capitale proprio e migliorando la propria solvibilità. Ma come si diceva prima, molto giocano le dimensioni. «La scelta dei mercati in cui operare è dipesa fino a ora dalla dimensione dell’azienda – spiega Andrea Paliani, partner EY e Mediterranean Advisory Leader – mentre per le grandi imprese è stato possibile indirizzarsi verso mercati complessi, essendo in grado di gestirne costi e rischi, per le PMI è stato consigliabile un approccio safe play».
Ma quand’è che un’impresa può dirsi internazionalizzata? «Generalmente, si definiscono come internazionalizzate tutte quelle imprese che hanno attuato, e non subìto, percorsi di crescita sui mercati esteri – continua Paliani – È quindi fondamentale distinguere le imprese che hanno sviluppato quote, anche importanti, di fatturato sull’export in modo passivo, subendo l’internazionalizzazione e reagendo a richieste crescenti da parte di clienti internazionali, da quelle che hanno invece pianificato e attuato in modo proattivo l’internazionalizzazione del proprio business. Secondo un orientamento sempre più diffuso, ci si riferisce con il termine “impresa internazionalizzata” solo alla seconda fattispecie. Queste imprese sono quindi quelle che hanno voluto e sono state capaci di internazionalizzare e multi-localizzare attività chiave della propria catena del valore, commerciali e/o operative».

Le dimensioni contano
La capacità di trovare una dimensione internazionale è quindi maggiormente una sfida per le Pmi, ma per una piccola o media azienda, il gioco vale la candela? «Abbiamo condotto un’analoga ricerca l’anno scorso che aveva come oggetto le aziende con fatturato fino a 50 milioni di euro e abbiamo registrato anche lì come le imprese internazionalizzate ottengono delle performance migliori rispetto alle imprese non internazionalizzate, sia in termini di ritorno sul capitale investito, sia in termini di ritorno sul capitale proprio. Inoltre, questa redditività mostra maggiore stabilità nel tempo grazie alla diversificazione geografica e alla conseguente maggiore resilienza rispetto a oscillazioni del mercato domestico. In particolare le aziende internazionalizzate incluse nel campione hanno mostrato negli ultimi anni rendimenti sul capitale investito nell’ordine del 2/3%, contro rendimenti negativi delle aziende non internazionalizzate. I risultati confermano la valenza dell’internazionalizzazione quale driver di creazione di valore, a prescindere dalla dimensione aziendale. La ricerca ha però evidenziato il ruolo giocato da quest’ultima nella scelta della tipologia dei mercati sui quali porre il focus per ottenere performance migliori. Mentre le grandi aziende internazionalizzate a più alta performance hanno sviluppato maggiormente la propria presenza in aree come l’Africa o l’Asia, le piccole aziende internazionalizzate a più alta performance si sono concentrate su mercati più maturi, come quelli dell’Europa Occidentale e del Nord America. Le aziende invece che hanno investito nell’Europa dell’Est hanno riportato i peggiori risultati».

Fattori di (alto) rischio
Attenzione ai mercati di sbocco dunque, da ricercare con attenzione secondo le esigenze della propria strategia di marketing. Ma con un occhio anche alla sicurezza. Nel contesto economico attuale, caratterizzato da grande dinamicità, le aziende devono avere una visione chiara e totale della loro esposizione al rischio politico soprattutto nei mercati emergenti, e al rischio del terrorismo nei Paesi in cui intendono espandere il proprio business. Ad esempio, secondo il rapporto annuale della società di consulenza Aon, rispetto alla situazione politica del 2015, vi è stato un upgrade, ovvero una riduzione del rischio politico, in 8 paesi: Cina, Etiopia, Iran, Haiti, Giamaica, Nepal, Pakistan e Serbia. Sono 4 invece i paesi con downgrade, quindi aumento del rischio politico: Capoverde, Micronesia, Filippine, Suriname.
Poi, recentissimo, c’è un altro fattore di rischio politico ed economico da considerare, che è il Brexit. Incertezza politica, confusione sul futuro degli accordi commerciali e svalutazione della sterlina rendono oggi la Gran Bretagna un mercato molto rischioso. Le previsioni al riguardo si accavallano, ma i panorami restano comunque foschi per un mercato che per l’economia italiana vale il 7% del proprio export, pari a 22 miliardi l’anno, con grossi rischi di contrazione del mercato soprattutto per i settori agroalimentare e tessile. Un grosso enigma a cui trovare una soluzione, ma che non si è ancora nemmeno manifestato tutto con chiarezza.

Il Made in Italy tira…
Ma quello d’Oltremanica non è per fortuna il solo mercato di sbocco possibile. E soprattutto, come si diceva, il Made in Italy può essere considerato un asset fondamentale per lo sviluppo internazionale delle aziende italiane. «Settori come il food e il fashion rappresentano insieme circa il 20% delle esportazioni nazionali – elenca Paliani – Solo il settore dei macchinari e apparecchi elettrici, che costituisce un altro pilastro, da un contributo maggiore, arrivando a generare circa il 25% delle esportazioni italiane. I maggiori marketplace e-commerce mondiali hanno riconosciuto il valore dei nostri brand, creando piattaforme dedicate alla veicolazione dei prodotti del Made In Italy sui mercati globali, utilizzandoli anche per attrarre traffico di consumatori e vendita di altri prodotti con minor blasone. Ciononostante, molto resta da fare, infatti secondo alcuni studi recenti su export e digitale, l’export online vale circa 6 miliardi di euro, solo il 4% del totale, di cui, circa 4,5 miliardi, sono realizzati attraverso piattaforme digitali. Gran parte di questi valori sono riconducibili proprio ai settori cardine del Made in Italy quali, in primis il fashion (circa il 70), seguito da arredo, design e food».

Il Made in E-R tira anche di più
L’Emilia-Romagna non poteva che essere una delle locomotive per arrivare a realizzare questi numeri, come conferma Ruben Sacerdoti, Responsabile del servizio Sportello Regionale per l’internazionalizzazione delle imprese. «Analizzando i dati regionali, l’Emilia-Romagna si rivela essere una delle poche regioni italiane dove l’export cresce. Siamo in periodo storico dove il commercio internazionale in generale cresce meno e bisogna difendersi dall’aggressività e dalla competitività dei paesi emergenti. In Emilia-Romagna in particolare riusciamo a mantenere alta la quota di esportazioni grazie a un consistente numero di aziende di buon livello che operano nell’ambito dei beni strumentali, dell’automotive di lusso e ovviamente ad un agroalimentare globalmente riconosciuto come eccellente. In questi settori molto personalizzati, più che il Made in Italy conta l’affidabilità e il servizio post vendita, quindi la capacità di garantire assistenza in remoto o l’intervento dei tecnici, e le nostre aziende in questo sono impeccabili».
Non esistono settori merceologici che non hanno un mercato per l’export; la scelta di vendere sui mercati oltre confine è sempre e solo una scelta aziendale ponderata, frutto delle ambizioni dell’imprenditore e della ricerca della giusta dimensione dell’impresa. «Vi è una fortissima correlazione tra innovazione e internazionalizzazione – spiega ancora Sacerdoti – solo chi fa innovazione riesce a esportare e, di contro, solo chi esporta è veramente innovativo. Esistono però anche aziende che trovano soddisfazione piena della loro capacità produttiva nel mercato nazionale,ad esempio le aziende avicole romagnole, che vedono l’intera loro produzione assorbita dal mercato nazionale e che non hanno bisogno, o non si pongono ancora l’esigenza, di pensare ai mercati esteri. Ci sono però dei settori economici in cui i mercati esteri sono irrinunciabili, come i già citati settori dell’automotive o dei macchinari industriali, ma anche quello delle ceramiche».
Pertanto, per provare a tracciare un identikit, i requisiti necessari a intraprendere la via dell’export sono un ottimo livello di innovazione, capacità di marketing e postvendita, un’organizzazione di logistica adatta all’esportazione. Tra le difficoltà più importanti da superare per chi si muove verso i mercati più lontani, c’è da annoverare la difficoltà di trovare il giusto partner locale che abbia le competenze per quanto riguarda l’industria del retail. Nell’abbigliamento, per esempio, si devono adattare misure, stili e colori ai mercati che possono chiedere collezioni particolari legate alle condizioni climatiche come nel caso del marcato russo. Oppure, nel food destinato ai paesi musulmani invece è indispensabile certificare che materie prime e ingredienti base non siano entrati a contatto con alimenti impuri.

I freni dell’export
Esportare e internazionalizzarsi non è quindi un processo semplice né un percorso da percorrere a cuor leggero. Gli elementi propedeutici da prendere in considerazione sono molti e la preparazione logistica deve essere curatissima. Per questi e altri motivi, il mercato estero non è consigliabile subito a qualunque azienda perché esistono limiti, fisici e di mentalità, che renderebbero quest’impresa un disastro.«Il problema principale che può impedire il successo sui mercati esteri per le aziende è il nanismo, cioè le ridotte dimensioni aziendali – spiega ancora Sacerdoti – Parliamo quindi di ridotte possibilità di credito, personale al di sotto delle esigenze, fatica negli investimenti e nella creazione di presidi sui mercati di sbocco, scarsa conoscenza delle dinamiche dei buyer, dei competitors e dei mercati di sbocco. Non esiste un fattore particolare risolto il quale l’impresa si sblocca sul mercato internazionale, bensì ci sono una serie di condizioni che devono essere soddisfatte tutte e contemporaneamente.
Le risorse finanziarie sono sicuramente necessarie per investire sul mercato di sbocco, e parliamo di investimenti che possono durare talvolta anche dieci anni perché si arrivi a un consolidamento della presenza sul mercato estero di riferimento».
La soluzione per arrivare all’export per le Pmi può passare allora da forme di collaborazione tra imprese? Sacerdoti pensa di sì: «Quella dell’aggregazione delle imprese è una delle soluzioni che caldeggiamo maggiormente, soprattutto tra aziende che possono costituire un’aggregazione verticale che ricostruiscano tutta la filiera fino a raggruppare tutte le competenze perché l’internazionalizzazione vada a buon fine. Noi però spingiamo anche perché anche imprese che sul mercato interno sono in concorrenza, uniscano le forze per arrivare a mercati esteri su cui comincerebbero da zero, senza fette di mercato da difendere ma solo da riuscire a conquistare. Purtroppo l’approccio collaborativo tra imprese è anche quello più difficile da ottenere per via di un diffuso problema di mancanza di fiducia tra imprenditori. Per ovviare a questo problema vengono spesso creati dalle istituzioni percorsi di internazionalizzazione in forma aggregata, all’interno di consorzi export o di reti per l’internazionalizzazione che creano le condizioni iniziali perché le imprese comincino a conoscersi e a fidarsi, allo scopo di cominciare un percorso aggregato».
«Si tratta di strumenti e approcci tutti italiani, perché negli altri paesi la formula per superare il problema del nanismo è quella che passa tra fusioni e acquisizioni – prosegue Sacerdoti – le imprese crescono di dimensione acquisendo imprese concorrenti o fondendosi con imprese con cui costruire delle integrazioni verticali. In Italia questo è una soluzione molto meno frequente perché si tende spesso a scegliere di rimanere piccoli per mantenere vantaggi e facilitazioni di natura fiscale e di legislazione del lavoro, ma non ritengo sia una strategia azzeccata per l’obiettivo dell’internazionalizzazione.
In Emilia-Romagna abbiamo alcune decine di casi di internazionalizzazione di successo da parte di imprese che hanno raggiunto l’obiettivo in maniera solitaria e autonoma, ma su 47mila imprese manifatturiere, 23mila delle quali esportano, si tratta di un dato quasi insignificante».

Strumenti preziosi
Per le Pmi che intendono prepararsi al grande passo della prova oltre confine, la Regione Emilia-Romagna mette a disposizione un interessante strumento per la promozione dell’export per le imprese non esportatrici. Si tratta di un bando che si conclude il prossimo 30 settembre e che intende rafforzare le capacità organizzative e manageriali delle imprese per renderle in grado di affrontare i mercati internazionali, tutto ciò attraverso il supporto di progetti finalizzati a realizzare percorsi di export strutturati nell’arco di massimo due anni e su massimo due paesi scelti dall’impresa. Uno strumento che assicura un’ampia assistenza garantito da ottime professionalità in materia. Non siamo più ai tempi di Marco Polo e chi fa impresa non può andare in capo al mondo all’avventura, a meno di voler passare alla storia per il Milione sì, ma di grattacapi.