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Roger Federer (foto da video)

Roger Federer (foto da video)

Roger Federer, Tiger Woods e Phil Mickelson: sono loro i tre sportivi che nel 2013 hanno guadagnato di più grazie alle sponsorizzazioni, almeno secondo la classifica di Forbes riferita agli endorsement dell’anno precedente. I primi due, al vertice anche della classifica generale che comprende anche i premi guadagnati sul campo, si sono portati a casa ben 65 milioni di dollari solo per aver concesso i propri volti alle campagne pubblicitarie di diverse aziende. Alle spalle di Mickelson, terzo con 44 milioni di dollari, si piazza l’eterno David Beckham (42 milioni di dollari, nonostante il ritiro dalle scene) e i cestisti LeBron James e Kobe Bryant. Per trovare la prima donna della lista bisogna scendere fino alla nona posizione, con una Maria Sharapova scesa in prima linea nell’arena imprenditoriale dopo il lancio del suo brand di caramelle, Sugarpova.
Davanti a queste cifre, è facile ipotizzare che le aziende stanzino simili budget per i testimonial perché si attendono un ritorno altrettanto importante. Una ricerca inglese, però, mostra che l’impatto di queste sponsorizzazioni è molto meno efficace di quanto si pensi. Secondo l’indagine compiuta da Threepipe su un campione di 2.000 persone nella fascia tra i 18 e i 24 anni, nel 77 per cento dei casi l’associazione di un personaggio con un brand non influisce sulla predisposizione all’acquisto di quel marchio.
Ma non solo: il 68 per cento degli intervistati ha dichiarato di non notare mai, o comunque molto di rado, i marchi che l’atleta promuove sul campo da gioco. In molti casi, poi, le associazioni sono del tutto sbagliate: solo il 6,8 per cento degli intervistati, ad esempio, ha collegato Lionel Messi all’Adidas. 
Ma quindi, perché le aziende continuano a investire milioni di dollari per accaparrarsi i testimonial più adatti? In primo luogo, i campi da gioco non sono gli unici ambienti in cui gli atleti si muovono, e gli sponsor sembrano diventare più visibili quando le performance sportive sono finite. Inoltre, le aziende che non si occupano di sport sembrano più visibili delle altre: ben il 31 per cento degli intervistati ha collegato correttamente la Virgin Media al suo uomo immagine, Usain Bolt, ma solo l’8 per cento di loro ha associato il velocista giamaicano al suo sponsor tecnico, la Puma.

Di fatto, però, le aziende sembrano faticare più del previsto a convertire le sponsorizzazioni in propensioni all’acquisto: segnale che le aziende dovranno iniziare a pensare a nuove e più creative strategie di comunicazione.