Skip to main content

La culla dell’hip hop sono i vicoli malfamati del Bronx, a New York, dove nel 1973 il dj Kool Herc aveva inventato una nuova e originale tecnica per “incendiare” le feste dei club del quartiere: usava infatti due copie dello stesso disco composto da sessioni di percussioni, le metteva una dopo l’altra in loop usando due giradischi distinti. Su questo ritmo il dj Afrika Bambaataa iniziò ad aggiungere testi sulla consapevolezza nera e sul riscatto urbano. Questa musica aveva il potere di aggregare giovani e strapparli all’arruolamento delle violente street gang che si davano battaglia nel Bronx. I valori dell’hip hop erano basati sul concetto di pace, unità, amore, divertimento e sulle note dei dj arrivò anche la poesia dei testi degli mc, ossia i maestri di cerimonia degli hip hop party, e ancora i ballerini (che riuscivano ad incarnare nel movimento del corpo il nuovo ritmo), e i writers che ne interpretavano l’anima grafica sui muri delle strade. Non fu una cosa da poco, perché negli anni 70 e nei primi ’80 l’hip hop offrì ai giovani dei bassifondi newyorkesi nuovi sfoghi culturali e un’alternativa stimolante alla violenza e al bullismo, alleggerendo di centinaia di morti il bilancio della criminalità di strada nella Grande Mela e innescando la scintilla di un movimento culturale che negli anni successivi si sarebbe diffuso ovunque.

In un mondo non ancora globalizzato e connesso in tempo reale, l’hip hop ha gettato radici nella subcultura urbana di tutto il mondo, ma è con gli anni 90 che è diventato un fenomeno culturale planetario, proiettando le atmosfere dei block party del Bronx nelle strade e sui marciapiedi delle metropoli mondiali. Attraverso l’hip hop molti giovani hanno trovato la capacità d’espressione che gli era negata in contesti di grave degrado urbano, e allo stesso tempo sono stati capaci di trovare un nuovo orgoglio di appartenenza a città, quartieri, gruppi sociali.

In Italia il fascino dell’hip hop attecchisce alla fine degli ’80 con i primi lavori delle posse (gruppi) nostrane, mentre per arrivare al successo commerciale ci sarebbe voluto ancora qualche mese. «Un periodo fondamentale è quello tra il 1990 e il 1991, quando finalmente compaiono i primi brani dove il rap è in italiano – racconta Damir Ivic, autore del libro Storia ragionata dell’hip hop italiano – Nel 1994 esce quello che è ancora oggi considerato in modo praticamente unanime il miglior disco rap italiano di sempre, SXM dei Sangue Misto, dove si riscontra un perfetto equilibrio tra due anime: quella dell’hip hop “puro”, dove conta lo stile, l’abilità tecnica nel costruire rime e metriche col rap, e quella dell’hip hop “impegnato”, quello dai testi che si concentrano su quello che succede nell’ambiente socio-politico».

La crescita dei gruppi hip hop ebbe un forte stimolo a Roma e nel Sud, dove si percepiva una maggiore esigenza di ricerca del riscatto e di manifestazione della protesta. Poi nel 1993 arrivano gli Articolo 31 con l’album Strade di città e con essi l’affermazione commerciale e culturale a livello mainstream dell’hip hop. Ancora oggi l’hip hop italiano sembra ancora – e forse ancora di più di un tempo – lo strumento musicale che i giovani usano per aggregarsi e parlare di loro e del mondo che li circonda. Rapper come Marracash, Fabri Fibra, Mondo Marcio o Cor Veleno stipulano contratti con majors discografiche ma continuano a parlare al proprio pubblico con toni schietti, duri, a volte volgari. Il flusso della cultura hip hop in Italia scorre in molteplici direzioni, da quello più commerciale a quello più antagonista e indipendente, ma sembra essere per i giovani l’unico stile di comunicazione ancora autentico e alla portata di ogni tipo di talento.

«Nell’hip hop c’è spazio per tutti – afferma ancora Damir Ivic – dai figli del proletariato industriale che trovano nel rap, nella breakdance, nel deejaying, nel writing il riscatto sociale e la presa di coscienza che anche loro possono essere dei protagonisti e non solo dei paria sociali ghettizzati; ai figli della buona borghesia che, potendosi permettere, come tempi e come economie, di coltivare i loro interessi e le loro passioni, diventano artisti hip hop di primo livello. Più tutti i gradi intermedi fra questi due estremi».

Che si prediliga la musica, il racconto, il disegno o la danza, l’hip hop offre a tutti una possibilità di espressione, comunicazione e aggregazione. Un esempio di tutto ciò è il Cool Summer Free Style, un progetto estivo per i ragazzi delle scuole superiori di Bologna che punta al rafforzamento della lingua italiana per studenti di origine straniera attraverso laboratori creativi di discipline hip hop, dal writing alla street art passando ovviamente dalla musica. In questo caso la cultura hip hop funge da catalizzatore per attirare e amalgamare ragazzi di origini diverse, proprio come accadeva nei bassifondi del Bronx negli anni ’70.

E’ solo un esempio tra tanti, ma indica come l’idea dell’hip hop sia destinata a non tramontare troppo presto. La strada ha bisogno di un anima per non morire nel degrado e sono i giovani che ci vivono a doverla creare e raccontare, con ritmo, rime e la rabbia di chi ha il bisogno e il diritto di essere ascoltato.