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Da Cagliari a Milano, attraverso numerosi premi, Silvia Argiolas lega il proprio nome ad “Italian Newbrow” e ad alcune gallerie attente alla giovane ricerca contemporanea. Nelle sue opere, un mondo straniante e straordinariamente “normale”

Nell’immaginario collettivo ricorre spesso il topos dell’artista saturnino, diviso tra genio e follia. Al di là dei luoghi comuni, cosa succede nel cervello di un artista? Quali sono gli stimoli che accendono la creatività attraverso luci ed ombre, lucida consapevolezza e stati melanconici?

Non so dire precisamente cosa accada nel mio cervello (ride, ndr) o, più in generale, nel cervello di un artista. Ci sono giorni in cui si percepiscono mille colori e sfumature, altri in cui tutto appare nero ed asciutto. Credo che molto dipenda da come ci si sente. Forse la risposta migliore potrebbe essere l’invito a guardare un mio quadro per vedere come sono fatta dentro: la mia creatività nasce da tutto ciò che mi circonda, dalle persone che incontro, dagli abbandoni, dalla noia, dalla musica e dai film.
Nell’opera selezionata per la copertina, così come in gran parte della tua produzione, si riconoscono diversi personaggi, ma risulta particolarmente difficile distinguere i buoni dai cattivi. Quale significato assumono queste figure? Esiste una relazione con la società contemporanea?
Assolutamente sì, penso che anche nella vita di tutti i giorni sia molto complicato distinguere i buoni dai cattivi. Tutto è soggettivo e relativo. Tante persone, pensando di agire a fin di bene, compiono gesti che possono cambiare il nostro destino. Nel nome del bene, a volte, si commettono atroci crudeltà. Proprio per questo in S. Guerriera mangiata lentamente dai suoi amici ci sono tante piccole figure che giocano con il mio corpo: solo una è palesemente cattiva, ma anche quella, al di là dell’apparenza, potrebbe essere in buona fede.
Spesso nelle tue opere ricorre una figura femminile con i capelli a caschetto che ti somiglia. Come ti poni in relazione al tema dell’autoritratto?
L’autoritratto è un pretesto per parlare del mondo, il caschetto è maschile e femminile: attraverso tante Silvie parlo del mondo che vedo con i miei occhi.
Come nasce una tua opera, dall’ideazione all’esecuzione? A quale immaginario attingi?
L’idea nasce da tutto quello che attraversa la mia esistenza: persone, spazi, odori e fatti di cronaca. Anche il cinema ha un ruolo importante. Amo gli autori che parlano del disagio giovanile, da Roberto Rossellini a Todd Solondz e Gus Van Sant. Diciamo che il cinema mi ha salvato la vita, soprattutto quando vivevo in Sardegna. L’isolamento può portare alla follia, il cinema ti aiuta a confrontarti con altri mondi, a provare empatia. Il mio lavoro non è mediato da bozzetti o disegni preparatori, preferisco intervenire direttamente sulla carta o sulla tela, assecondando le sensazioni che provo in quel momento.
In agosto esporrai al Fortino Napoleonico di Forte dei Marmi, nell’ambito della mostra Italian Newbrow. Cattive Compagnie, curata da Ivan Quaroni. Come svilupperai il tema proposto? Puoi darci qualche anticipazione sulla tua installazione? Le novità rispetto alla precedente produzione?
La location è molto bella e ogni autore avrà a disposizione una propria stanza. Lavoro da alcuni anni insieme agli altri artisti di Italian Newbrow: siamo molto diversi, ma con alcuni tratti comuni. La tematica proposta da Ivan Quaroni – Cattive compagnie – è molto interessante, perché può essere sviluppata in diversi modi. Nella mia sala ci saranno due quadri molto grandi e una serie di opere su cartone telato. Rispetto alla precedente produzione, ho usato colori un po’ più acidi. Le cattive compagnie di cui parlo sono il disagio giovanile – e non – la noia, l’assuefazione, le visioni psichedeliche e la solitudine. Questa installazione è nata lentamente nella mia testa dopo aver saputo della morte di una conoscente a causa della droga. Mi ha colpito, in particolare, la sua storia di solitudine e di abbandono.
Sempre in questi giorni stai lavorando ad una bi-personale con Giuliano Sale, che si terrà in ottobre presso la Galleria Libra di Catania. Come dialogheranno le vostre ricerche?
Ci sarà certamente un dialogo serrato. Io e Giuliano siamo una coppia nella vita, abitiamo nella stessa casa e lavoriamo nello stesso studio da diversi anni. Questo non vuol dire che le nostre ricerche siano necessariamente affini. Il nostro lavoro è molto differente nella forma, ma c’è qualcosa che ci unisce nella sostanza, forse proprio quel senso di abbandono e di solitudine che attraversa i personaggi. Sarebbe bello se questo potesse diventare il filo conduttore della mostra…
Altri progetti in cantiere?
In dicembre parteciperò ad una mostra collettiva, curata da Beatrice Buscaroli, alla Galleria Libra di Catania. Ci sono anche altri progetti, dei quali ancora non posso rivelare nulla, in programma a Milano.
Quali opere sono appese alle pareti di casa tua?
Alle pareti di casa ci sono le opere di tanti amici e conoscenti, poi naturalmente ci sono quelle degli ex-amici, chiuse dentro l’armadio (ride, Ndr). Sono tutti lavori che amo, sia per la qualità della ricerca, sia per il legame personale o professionale che incarnano. Ho naturalmente opere di Giuliano Sale, ma anche di Arcangelo, un maestro nel vero senso della parola e di Silvia Mei, artista giovane e brava, e di tanti altri autori. La mia collezione è il frutto di scambi di reciproca stima.
Tre nomi che mancano?
Carol Rama, Dana Schutz ed Alessandro Pessoli.
Se potessi vestire i panni di un altro artista, chi vorresti essere?
Vorrei essere Antonia Pozzi, perché ho sempre amato la poesia, anche se i miei versi erano banali. Magari concludere la mia esistenza come lei: in silenzio, nella neve…