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Quando si parla di creatività, occorre innanzitutto sgombrare il campo da alcuni pregiudizi. Il primo: guai a chi pensa che per essere creativi occorra fare gli scrittori, i musicisti o i pubblicitari. Al contrario, il pensiero creativo è lo strumento al quale il cervello umano fa ricorso ogni volta che si trova di fronte un ostacolo da superare. Che si tratti di risolvere un problema in azienda, inventare una favola per un bambino che non si vuole addormentare o – come purtroppo capita sempre più spesso – arrivare alla fatidica fine del mese con pochi euro in tasca. Che cos’è, dunque, la creatività? Lo abbiamo chiesto ad Annamaria Testa, creativa di mestiere nonché autrice di numerosi saggi sull’argomento: «La definizione fornita ai primi del ‘900 dal matematico Henry Poincarè è la più condivisa tra gli studiosi internazionali, e anche io la ritengo la più esauriente: si intende per creatività l’attività che consiste nell’unire elementi già esistenti in configurazioni nuove e utili sotto il profilo economico, estetico o etico-sociale». Una definizione da cui deriva l’abbattimento di un secondo pregiudizio: l’atto creativo non è solo frutto di un’illuminazione estemporanea, ma può nascere solo dopo uno studio lungo e disciplinato. In altre parole, genio e regolatezza. «La creatività ha sì una forte componente intuitiva, spontanea, talentuosa – conferma Testa – ma non si sviluppa se non in presenza di altrettanto forti competenze di base e specifiche. Ci vuole tenacia, resilienza, resistenza alle frustrazioni, perché non è vero che le idee saltano fuori in uno schioccar di dita. Insomma, la creatività è anche un fatto di preparazione specifica: in Italia dobbiamo cominciare a rendercene conto». Terzo pregiudizio da cancellare, dunque: noi italiani non siamo davvero così creativi come amiamo raccontare: «Lo siamo stati in certe epoche storiche – la Firenze dei Medici, ma non solo – oggi non più: siamo messi piuttosto male nel ranking internazionale delle invenzioni. Ci manca il terreno fertile: educazione di base, reti, opportunità di interazione e di confronto. E soprattutto il rispetto sociale, perché il comparto della creatività è l’unico che continua a crescere in questi tempi di crisi».
La creatività rappresenta quindi anche una ricchezza, alla quale, però, le imprese nostrane attingono ancora troppo poco. Lo sa bene l’ingegnere Roberto Pozza, che alla creatività in azienda ha dedicato anche un libro edito da Il Sole 24 Ore: «La parola creatività è off limits nella maggior parte delle aziende: spesso viene vista come ingestibile, come elemento casuale, individuale o esterno all’organizzazione, e, tradizionalmente viene accettata solo in alcuni comparti strutturati come la ricerca e sviluppo, il marketing o la pubblicità. Io, invece, sono fautore della creatività in tutte le funzioni. Il suo utilizzo in azienda può essere sistematico, paradossalmente, se parte da una razionalizzazione, se diventa progetto con metodi e finalità definiti, focalizzazioni condivise e risorse dedicate». Un processo complicato ma che, se alimentato a dovere, può concretamente produrre utili: «La storia ci insegna che chi ha avuto la forza di portare la creatività fino alla realizzazione ha generato valore. Il format televisivo del Grande Fratello, che ha portato al successo la Endemol, nasce da una seduta di brainstorming. E abbiamo diversi esempi anche in casa: la Geox nasce da un atto creativo, proprio in un momento in cui tutte le aziende calzaturiere italiane fallivano perchè non avevano idee. Spesso anche minimi elementi di creatività possono generare grandi vantaggi competitivi. Il più semplice è quello del self-service: è bastato questo principio, applicato a un settore che sembrava definitivamente formalizzato, per rendere miliardaria l’Ikea. In questo momento proprio la piccola creatività, attuabile senza grandi investimenti, può risultare la più utile».
Se, dunque, il pensiero creativo ci aiuta nella vita e nel lavoro e fa bene al tessuto economico, sociale e culturale del Paese, occorre chiedersi in che modo questo virus possa essere inoculato nella società. Un obiettivo che incontra inevitabilmente il mondo della formazione e della scuola. «Educare alla creatività è qualcosa che si è sempre fatto, perché in mancanza di educazione anche il possesso di buone qualità potenziali fa fatica ad emergere – conferma Benedetto Vertecchi, docente di pedagogia sperimentale all’Università Roma Tre – Gli studi mostrano che le differenze innate tra un soggetto ai limiti della difficoltà cognitiva e il genio non superano il 20% della distribuzione complessiva. Il problema sta nel tipo di affinamento e di sviluppo delle capacità che è stato offerto». E sotto questo aspetto l’istruzione italiana mostra tutti i suoi ben noti limiti: «La nostra scuola segue modelli didattici incentrati sull’acquisizione di algoritmi, istruzioni codificate, ma non sollecita il contributo personale del soggetto. L’apprendimento è continuo e riguarda tutta la vita, ma se questa capacità non si incentiva in gioventù, è più difficile che si manifesti successivamente».