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Neuro-mania, Il cervello non spiega chi siamo – pubblicato nel 2009 per i tipi de Il Mulino – è una vera e propria critica al dilagare di tutte quelle neuro-discipline che si propongono di dare spiegazioni innovative al funzionamento del cervello. Gli autori sono Paolo Legrenzi, professore ordinario di Psicologia cognitiva allo Iuav, e Carlo Umiltà, professore ordinario di Neuropsicologia all’università di Padova. Ci siamo rivolti a loro per capire un po’ meglio la questione.

«Il nostro lavoro è partito dalla constatazione dell’emergere, negli ultimi anni, di molte cosiddette nuove teorie che cercano di interpretare discipline che hanno una tradizione lunghissima, in termini neurali – spiega Carlo Umiltà – Rilevando come tutte queste neuroscienze non abbiano in realtà fatto registrare progressi straordinari, abbiamo guardato criticamente a questa tendenza che ci è parsa definibile come neuro-mania». Aggiunge Legrenzi: «Esistono già la psicologia che studia i processi cognitivi e comportamentali degli individui, e la neuropsicologia che ne studia le basi neurali, la localizzazione nel cervello. Le neuro-discipline proliferate negli ultimi decenni semplicemente coltivano l’illusione che esista un nuovo scibile che rivoluzionerà le nostre conoscenze».

Le neuroscienze, quindi, non hanno inventato nulla di nuovo rispetto al passato; tutt’al più si avvalgono di nuove e sofisticate tecnologie – neuroimaging, soprattutto. Viene spacciato per nuovo ciò che in realtà è stato indagato a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Ma allora come considerare tutte queste nuove discipline? Per i due studiosi si tratterebbe di una moda, alimentata da un’informazione scientifica che punta sulla sorpresa di fronte a immagini che mostrano il nostro cervello con diverse zone colorate che si attivano in modo diverso a seconda, per esempio, del tipo di decisione che dobbiamo prendere. Una rappresentazione falsata che pretende di spiegare la mente a partire del cervello, mentre in realtà non spiega nulla: semplicemente localizza, cioè indica dove nel cervello si svolgono processi mentali che restano inspiegati. «I giornali – chiarisce Legrenzi – mostrano spesso la localizzazione cerebrale attraverso aree colorate diversamente dalle altre. Ciò è fuorviante. L’unica cosa che si può osservare è una differenza statistica dell’attivazione, e se questa differenza è attendibile, si può supporre che alcune zone del cervello abbiano lavorato più di altre». La diffusione di queste teorie sarebbe quindi imputabile anche a una cattiva interpretazione offerta da taluni media, «che pubblicano banalità che però fanno colpo: tecniche di neuroimaging o risonanze magnetiche funzionali allo scopo di correlare aree del cervello e determinate funzioni, creando un rapporto di causa ed effetto che, di fatto, non esiste».

Ma, in fondo, che importa se il grande pubblico si lascia affascinare da queste rappresentazioni? Da cosa nasce l’esigenza di metterci in guardia dai neuromaniaci? Nell’articolo con il quale i due professori presentarono il loro saggio su Il Sole 24 Ore, emergono chiaramente le implicazioni di questa ossessione per la mappatura del cervello, che si rivela intimamente connessa a delicate questioni di vita (e di morte). Il progresso della tecnologia ci pone di fronte a questioni inedite nella storia dell’umanità: “Dov’è il confine, per uno sportivo, tra una droga e una medicina? Possiamo cercare di incrementare il nostro fascino cambiando il corpo (ad esempio con la chirurgia plastica) grazie a tecnologie mediche? Quando diventiamo altro da noi, quando abbiamo cambiato troppo la nostra identità corporea?”. Di fronte a questi quesiti, rilevano Umiltà e Legrenzi, “la tentazione di tornare all’antico è forte”. L’antico è la familiare dicotomia mente-corpo, con quest’ultimo che diventa punto di riferimento privilegiato e offre fondamento alle nostre regole di intervento e di comportamento. “Ma – avvertono i due studiosi – adottare questo schema nelle condizioni tecnologiche odierne può essere assai pericoloso e fuorviante”. Ci sembra ovvio ricorrere alla genetica per definire il momento in cui un embrione diventa persona, e il momento in cui un vecchio torna a essere solo corpo e non più persona? Umiltà e Legrenzi ci suggeriscono che nulla impedirebbe di guardare la cosa da un punto di vista uguale e contrario, ossia dare per scontato che il metro di misura sia il benessere di una persona, benessere non solo corporale ma anche psichico, e utilizzare poi questo criterio per definire il benessere nel suo complesso. “Non è una differenza da poco – scrivono i due professori – In questo secondo caso il benessere è la figura, mentre le condizioni del corpo costituiscono lo sfondo. Ad esempio, se voi vi concentrate sul benessere, potete dare per scontato che, dopo la sua morte, qualsiasi persona sia un donatore di organi. Al contrario, se vi concentrate sul corpo, avete bisogno di un assenso concesso preventivamente in circostanze diverse (quando il morto era vivo)”.

Sinapsi e geni non esauriscono ciò che siamo. Meglio: la mente non è riducibile al cervello così come la nostra vita non è pacificamente riducibile alle sue espressioni biologiche. Concludono i due professori: «Il cervello potrà spiegarci chi siamo solo quando riusciremo a chiarirne i meccanismi neuronali, senza limitarci a localizzare le basi neurali dei processi mentali».