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Per guidare con successo una società sportiva il talento manageriale non basta. Ci vogliono coraggio, emozione e soprattutto cultura dello sport. Sono questi i valori che contraddistinguono l’operato di Alessandro Dalla Salda, amministratore delegato della Pallacanestro Reggiana che nei suoi tredici anni di servizio ha saputo meritare la fiducia e la stima dei soci, degli addetti ai lavori e dei tifosi della Trenkwalder. Oltre che un abile dirigente, infatti, Alessandro è prima di tutto uno sportivo: “Adoro lo sport e ho il privilegio di essere riuscito a trasformare la mia passione più grande in una professione”.

Come si è avvicinato al mondo del basket?

Ho respirato sport fin da bambino. A casa mia c’erano pochissimi giocattoli, ma non mancavano palloni, canestri, tavoli da ping pong e racchette da tennis. Giocavo a calcio ma un infortunio mi ha costretto a fermarmi, così mi sono concentrato sugli studi. Ho frequentato scienze politiche e mi sono laureato con una tesi sui rapporti di lavoro nel mondo dello sport. Nel frattempo, dal 1991 al ’97 ho lavorato come giornalista sportivo per la Gazzetta e per altre testate nazionali. Questo lavoro mi ha consentito di avere un’ulteriore apertura e di intessere molte relazioni. Nel 1995 la Pallacanestro Reggiana è passata nelle mani dei privati. Due anni dopo, grazie ai consiglieri Licia Ferrarini e Chiarino Cimurri, e a Piero Montecchi, che giocava nella squadra, ho ottenuto un colloquio con il presidente di allora, Elio Monducci, che necessitava di un dirigente giovane che lo supportasse. Nell’agosto di quell’anno sono diventato responsabile dell’ufficio stampa e delle relazioni pubbliche della società. Nel 2002 sono stato nominato direttore generale e dal 2006 sono amministratore delegato. Dopo tutti questi anni, lo sport continua a darmi grandissime emozioni. È merito dei valori che trasmette: lo spirito di gruppo, la disciplina, tutto quello che va sotto il nome di sportività.

In cosa consiste il suo lavoro?

La Pallacanestro Reggiana va considerata un’azienda atipica: una società relativamente piccola, con una trentina di dipendenti tra prima squadra, squadra giovanile, staff tecnico e staff societario, che fattura appena tre milioni e mezzo di euro ma riesce a muovere interessi e a sviluppare dinamiche di comunicazione e di emozione che coinvolgono un’intera città.

La Legge ’91, che ha imposto alle società di considerare i propri collaboratori come dipendenti subordinati, purtroppo ha creato dei “piccoli mostri”: aziende costantemente in perdita che, senza la disponibilità finanziaria e la passione di grandi imprenditori, non potrebbero sopravvivere. Il mio lavoro consiste nel ricercare un equilibrio tra centri di costo e fonti di ricavo, senza perdere di vista i risultati della squadra, che restano prioritari. Molte società considerano gli investimenti come un costo. Noi facciamo l’opposto, e questa scelta sta dando i suoi frutti. In questo senso mi ha trasmesso molto l’esperienza fatta accanto a grandi imprenditori.

Qual è il punto di forza della sua esperienza di manager sportivo?

Ritengo che per fare bene il proprio lavoro, soprattutto ad alti livelli di responsabilità, sia indispensabile essere preparati e saper concentrarsi sui propri compiti. A lungo andare, per qualcuno potrebbe diventare limitativo. Io invece continuo a sentirmi a mio agio nel fare il mio lavoro e anzi ritengo necessario concentrarmi quasi esclusivamente su quello, per farlo ad alti livelli.

Cosa significa lavorare costantemente sotto gli occhi dell’ opinione pubblica?

La vera opinione pubblica per noi sono i media, i tifosi e i 106 sponsor che ci sostengono. Siamo chiamati a produrre uno spettacolo che soddisfi tutte queste persone. Considerando che nello sport ci sono variabili imperscrutabili, è importante rimanere lucidi e conservare la giusta distanza anche quando le cose non vanno, prendendo le opportune decisioni senza farsi condizionare troppo. In quest’ambito così anomalo, ogni giorno è diverso dal precedente e in qualsiasi momento si rischia di cedere alla pressione. È fondamentale saper coniugare l’emotività con le reali esigenze della società e le richieste della proprietà.

Qual è l’elemento vincente e quali sono i limiti della Pallacanestro Reggiana?

Penso che il nostro talento sia quello che ci viene riconosciuto all’esterno: dicono che la nostra società, all’interno del mondo del basket, sia una delle meglio organizzate d’Europa. Bisogna ricercare la serietà e la solidità aziendale per ottenere dei risultati. Noi abbiamo adottato questo regime da molti anni.

Il punto di debolezza, invece, deriva sicuramente dal fatto di essere in LegA2, una categoria stretta per la struttura, la storia e la tradizione del club. Soprattutto la retrocessione del 2007, avvenuta nel momento di massimo splendore della società in seguito al caso Lorberk, in cui siamo stati sacrificati sull’altare di una frode sportiva consumata, ha soffocato la nostra crescita. Inoltre, ha pesato e pesa la mancanza di un impianto sportivo idoneo. Senza un palasport adeguato, come quello che avevamo progettato e che ci siamo visti negare nel 2005, non saremo mai una squadra di altissimo livello.

Quali sono gli obiettivi attuali?

Prima di tutto, mi auguro che i ragazzi della squadra recuperino condizioni fisiche ottimali, per poter arrivare ai playoff, che sono il momento più emozionante del campionato. Oggi il massimo a cui possiamo ambire è mantenerci tra i professionisti e riportare in Serie A la Trenkwalder, riuscendo a consolidare una capacità tecnica e una stabilità che ancora non possediamo del tutto.

E gli obiettivi personali?

Ho appena firmato un contratto di altri tre anni. Nel contingente – e l’ingaggio di un allenatore come Fabrizio Frates ne vuole essere la dimostrazione -, mi propongo di dare stabilità all’area tecnica e sportiva e, entro la fine del mandato, di riportare la Pallacanestro Reggiana in Serie A. Senza perdere di vista l’obiettivo prioritario di mantenere la società in salute.

Qual è stata l’emozione più grande che ha provato in questi anni?

Facendo questo lavoro mi emoziono sempre. I momenti più significativi sono stati sicuramente le grandi vittorie, ma l’emozione più intensa me l’ha data la vittoria del primo campionato under 20, nel 2003. Venivamo da una pessima stagione e proprio dalla squadra giovanile abbiamo ricevuto la gioia più grande. Quel successo ci ha dato l’energia per ripartire. È proprio questo il bello dello sport: anche dopo una grossa delusione può arrivare una soddisfazione in grado di risollevarti. Quello che conta è non fermarsi mai