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Interviste

E’ ancora un paese per pensionati?

Di 05/08/2010Marzo 15th, 2023No Comments

Lo sapevate che è possibile riscattare gli anni di studio per la pensione? L'importo del contributo si identifica in base all'età dell'iscritto alla previdenza, alla sua retribuzione al momento della richiesta e agli anni da riscattare.

di Federico Parmeggiani

Il tema è uno di quelli che il dibattito politico italiano ripropone da decenni: puntuale ad ogni legislatura ci si confronta col nodo delle pensioni. La politica e gli esperti del settore hanno regolarmente sottolineato come il nostro sistema previdenziale comporti un peso sempre più insostenibile per le finanze pubbliche e che quindi la sua struttura necessiti di essere profondamente rivista. Altrettanto puntualmente la storia politica italiana ci mostra che ogni tentativo di riforma del settore è tendenzialmente percepito come impopolare, osteggiato dalle parti sociali e tende a condurre all’adozione di soluzioni di compromesso che, volendo accontentare tutti, finiscono spesso per non soddisfare pienamente nessuno.

Certo, non è mai semplice decidere quale interesse privilegiare tra l’integrità del bilancio statale e la necessità di assicurare al contribuente un ritiro dalla vita lavorativa dignitoso ed equo, ma questi tempi di crisi incalzano chi è al Governo e richiedono al più presto una risistemazione del sistema pensionistico che assicuri una soluzione economicamente sostenibile per gli anni a venire. In proposito, le ultime misure adottate dal Governo (alcune contenute nel pacchetto di contromisure alla crisi finanziaria del Decreto Legge 78/2010) portano novità di rilievo, quale la ridefinizione dei tempi intercorrenti tra la maturazione dei requisiti per la pensione e l’erogazione della stessa o l’equiparazione dell’età pensionabile tra uomini e donne nel settore pubblico. Per valutare la portata di queste riforme e il futuro del nostro sistema pensionistico non esiste persona più indicata di Pietro Ichino, Professore ordinario di Diritto del Lavoro all’Università statale di Milano, ma soprattutto studioso che – da deputato e da consulente prima, da Senatore nelle file del PD poi – ha messo il suo sapere di accademico al servizio della gestione della cosa pubblica, entrando purtroppo anche nel novero dei giuslavoristi minacciati per le proprie idee innovative dal terrorismo rosso.

Sulle misure finora approntate dal Governo in materia previdenziale il Prof. Ichino ha un opinione ben precisa: “Mi sembrano giusti – e comunque obbligati, sul piano del diritto comunitario – tutti i passi avanti in direzione della parificazione dell’età di pensionamento per uomini e donne. Ma – puntualizza – preferirei un ordinamento che consentisse a tutti di scegliere l’età del pensionamento al raggiungimento di una certa età: per esempio i 61 o i 62 anni. Come in Svezia, dove la “finestra” è tra i 62 e i 67. Naturalmente, a chi sceglie di andare in pensione prima deve essere offerto un trattamento nettamente inferiore rispetto a quello offerto a chi sceglie di lavorare più a lungo”.

Per l’appunto, una delle questioni che ultimamente ha fatto maggiormente discutere concerne la parificazione tra uomini e donne in relazione all’età pensionabile. Sorge infatti spontaneo chiedersi se tale novità verrà recepita con difficoltà dalla società italiana, da sempre contraddistinta da un livello di occupazione femminile basso rispetto alla media europea. “Il pensionamento cinque anni prima degli uomini era il risarcimento per la posizione deteriore riservata alle donne nel mondo del lavoro professionale e per il maggior carico di lavoro domestico non retribuito: quello casalingo. È da un quarto di secolo che l’Unione Europea ci chiede di uscire da questo vecchio equilibrio, che va considerato come un equilibrio deteriore. Ora che il nodo è venuto al pettine, credo che non dovremmo subirlo malvolentieru, come una imposizione. Dobbiamo approfittare del vincolo per dare finalmente il colpo di reni necessario”.

Più precisamente, lei che cosa propone? “Per ogni euro risparmiato con l’equiparazione dell’età pensionabile, dobbiamo stanziarne quattro per incrementare i servizi alla famiglia (soprattutto col sistema dei vouchers), e per una detassazione selettiva dei redditi di lavoro delle donne. Questa è l’unica azione positiva che possa consentirci di alzare il tasso di occupazione femminile dal 46% attuale al 60% che l’Unione Europea ci indica come obiettivo. Poi occorre intensificare il controllo – giudiziale e amministrativo – contro le discriminazioni di genere, in particolare nei livelli retributivi e nell’accesso alle qualifiche aziendali più alte”.

Cosa rispondere quindi a chi sostiene che tale pacchetto di riforme sia necessario unicamente in un’ottica di risanamento di bilancio e dubita invece che esso possa migliorare in concreto il sistema previdenziale? “Gli aggiustamenti apportati hanno sicuramente un effetto positivo di carattere strutturale, che si proietta anche sugli equilibri futuri nel medio e lungo termine. In particolare, mi sembra molto importante il ritorno allo spirito e alla lettera della Riforma Dini per quel che riguarda l’aggiustamento periodico dei coefficienti di sostituzione per garantire l’equilibrio attuariale. Ma occorrerà porsi anche il problema dei trattamenti pensionistici che matureranno fra 25 o 30 anni a favore della generazione dei nostri figli. La loro carriera contributiva è sovente piena di scoperture”.

Parlando di categorie penalizzate non si può non menzionare i giovani: la storia del nostro sistema previdenziale infatti è contraddistinta da iniquità macroscopiche: basti pensare allo stridente contrasto tra le “baby pensioni” di craxiana memoria e le prospettive delle generazioni più giovani che pare non vedranno la pensione se non a ridosso dei settant’anni. Ritiene che nell’ordinamento previdenziale vigente sopravvivano tuttora iniquità macroscopiche? “Sì, penso che una via per risolverlo sia quella di istituire una forma di “reddito di cittadinanza” erogato, a carico dell’Erario e della fiscalità generale, a tutti i cittadini al di sopra di una determinata soglia di età: potremmo fissarla a 65 anni. Un’altra parte del trattamento di vecchiaia dovrebbe invece essere a carico della gestione pensionistica e finanziata col sistema contributivo. A questo tende un disegno di riforma bi-partisan elaborato e presentato recentemente in Parlamento con le prime firme di Giuliano Cazzola e di Tiziano Treu”.

In che modo però la crescente incertezza in merito alla propria pensione può fin d’ora incidere sulla concezione del lavoro che hanno le giovani generazioni? “Il problema, mi sembra, è che i giovani ci pensano troppo poco alla previdenza. Si ha l’impressione che non ci credano più, abbiano rinunciato a considerarla come una prospettiva realistica”. Al riguardo viene da chiedersi se tale incertezza possa avere o meno una ricaduta positiva: i giovani lavoratori saranno spronati ad essere “imprenditori di sé stessi” e investiranno meglio i propri guadagni durante la propria vita lavorativa, oppure, al contrario, saranno incentivati a nascondere unicamente i propri introiti al sistema fiscale e previdenziale visto lo scarso ritorno che essi genereranno? “Credo che siano presenti entrambi gli atteggiamenti, entrambi i fenomeni. Rispettivamente in quale misura, non sono in grado di dirlo”.

In chiusura va evidenziata un’altra peculiarità italiana: la previdenza complementare. Infatti, il legislatore italiano si è mosso con relativo ritardo in materia di previdenza integrativa e sia il segmento finanziario dei fondi pensione che la vigilanza su di essi paiono meno sviluppati rispetto ad altri paesi. Ritiene che nel medio periodo i trattamenti pensionistici complementari possano costituire in Italia una reale alternativa o un valido supporto alle carenze del sistema previdenziale pubblico? “Certamente sì. Purché si difenda gelosamente la loro fonte esclusivamente negoziale collettiva: nel momento in cui, invece, li si facesse oggetto, in qualche modo o misura, di un qualche obbligo di fonte legislativa, essi si snaturerebbero e l’equilibrio del sistema incomincerebbe a essere a rischio”.

Al termine di questo stimolante dialogo col Prof. Ichino, mi sorge spontanea un’ultima, amara riflessione sui giovani e le loro pensioni incerte. In primo luogo è sicuramente vero che un Paese come il nostro, con un bilancio perennemente dissestato, sia destinato a generare povertà e a peggiorare la qualità della vita dei cittadini, il che ci impone improrogabilmente la via del rigore e della sostenibilità finanziaria.
Nel percorrere questa impervia ed obbligata strada non va però dimenticato che una generazione costretta a protrarre indefinitamente la propria vita lavorativa sarà una generazione caratterizzata da un rapporto deteriore col proprio lavoro. Perciò un legislatore virtuoso deve parimenti assicurarsi che il lavoro non assuma le sembianze afflittive di una condanna perpetua, ma costituisca innanzitutto l’attività tramite la quale il singolo esprime il proprio ruolo nella comunità ed elargisce il proprio personale contributo al buon funzionamento di essa. Un’attività da esercitarsi per un periodo standard in cui fornire la propria esperienza, il proprio estro, la propria abilità ad un livello qualitativo adeguato e nel rispetto della propria dignità. Un periodo al quale deve seguire un doveroso ritiro che assicuri alla società il ricambio di forze lavorative e l’aggiornamento della professionalità. Qualsiasi Governo che, pressato dalle incombenze finanziarie, si dimentichi del tutto di questo basilare principio, arrecherà più danni che benefici alle generazioni presenti e a quelle che verranno.