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Inno alla responsabilità personale

Di 12/03/2010Marzo 15th, 2023No Comments
1049880_73189252_optdi Michela Cocchi (avvocato membro dell’UIA)

Oggi con gioia, avvio, da queste pagine, il mio dialogo con i lettori di questa Rivista. Con gioia, per la radice emiliano-romagnola, che condividiamo, che ha un preciso contenuto e un forte significato. Con gioia, perché, da sempre, la mia attività professionale si focalizza sulle visioni e sugli obiettivi degli Imprenditori. Con gioia, nel contesto attuale, che ci vede sfidati e sfidanti per lo sviluppo, la crescita e il benessere nostro e delle comunità, alle quali la globalizzazione ci fa partecipare, amplificando la potenzialità della nostra sfera di influenza e responsabilità. In questo nostro primo incontro, allora, vorrei parlare di ciò cui, come avvocati, siamo chiamati: fare un buon lavoro, lavorando per i nostri clienti, per il sistema della giustizia e per il bene più grande. Questa è la missione dell’avvocato e, attraverso questa missione, si può cambiare il mondo. Molti avvocati lo hanno già fatto.

Non è soltanto la sete di guadagno a spingerci. Condividiamo con gli imprenditori l’insopprimibile, naturale inclinazione a fare bene, a fare del bene. La soddisfazione, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a una clientela sempre più vasta, ampliare gli impianti, costituiscono – diceva Einaudi – una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Nella lingua inglese, imprenditore si dice undertaker ovvero “colui che prende su di sé”. Anche gli avvocati hanno potere. Potere di sfidare l’ingiustizia, di cambiare la società, di aiutare coloro che hanno bisogno. Di correggere ciò che è sbagliato e assicurare che non si ripeta di nuovo. Gli avvocati, spesso, assistono le persone quando sono maggiormente vulnerabili: è proprio nei momenti di crisi, che i nostri clienti hanno più bisogno di noi. Ci troviamo spesso in una posizione unica per rimuovere quelle ingiustizie, che possono rendere la vita ingiustificatamente dura ad alcuni e altrettanto ingiustificatamente facile ad altri. Questo è ciò che gli avvocati hanno fatto nella storia. Si sono alzati a difesa del sistema della giustizia, che è corretta e hanno lavorato per cambiare il sistema, quando non era corretto o non proteggeva equamente i cittadini. Per tale via, hanno sanato e saniamo. Saniamo attraverso il potere delle nostre parole, della nostra conoscenza, della nostra compassione. Capite, allora, che, mentre molti denigrano la nostra professione, senza gli avvocati, il loro tempo, la loro esperienza, molto del buono di questo mondo non sarebbe stato realizzato. Non sto certo raccontando che gli avvocati sono brave persone: siamo buoni e cattivi, come tutti gli altri. Sto dicendo piuttosto che facciamo e possiamo fare buone cose. Anticipare il futuro per esempio è uno degli imperativi di un avvocato. E, per anticipare il futuro, occorre essere in grado di capire quali sono i bisogni della società, chi li soddisfa e come.

Da un po’ di tempo a questa parte, stiamo assistendo alla commercializzazione della legge e degli avvocati: ciò che, in passato, era considerato l’esercizio abusivo della professione legale – da parte di chi avvocato non era – si è mano a mano trasformato nella fornitura di servizi legali da parte di soggetti, pur privi dell’abilitazione all’esercizio della professione. I servizi legali, in molti casi, si sono commercializzati al punto che le persone non sanno neppure più chi effettivamente e concretamente svolge l’attività, in quello che dovrebbe essere il loro interesse. “Faster and Cheaper” – Più Veloce e Più Economico è il mantra di questa commercializzazione. Perso nel furore e nel rumore è l’insegnamento dell’avvocato “non riguarda te: riguarda il tuo cliente”, con in mente il quale l’unico impegno è “solo il meglio; solo il meglio per il tuo cliente”. Il mondo è a un passaggio critico. Le attese vittorie in tema di integrazione globale, riduzione della povertà, protezione del pianeta dipendono dalla nostra abilità di affrontarle. Il mercato non ha nulla di magico: funziona con efficienza e sostenibilità solo quando determinati parametri sono in essere. Le pre-condizioni del successo includono generalmente il riconoscimento e la protezione dei diritti di proprietà, la cogenza dei contratti, la concorrenza e il flusso di informazioni.

Il miglior modo di predire il futuro è crearselo. “Fai soldi”. “Falli eticamente”. “E, mentre li fai, fa la differenza”. Così, apriva il suo intervento Robert Corcoran della General Electric, il 28 Aprile 2008, alla Harvard Business School, in occasione della Conferenza “Business and Human Rights”, organizzata dalle Nazioni Unite, per celebrare il 60mo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Quella suggestione, che mi ha fortemente emozionato, non ha nulla a che vedere con l’odierno abuso del termine “etica”. Perché parlare di “denaro etico”, “affari etici”, “impresa etica”? Quasi che, di per sé, denaro, affari e impresa non fossero etici. Possono riconoscersi due modi di fare denaro, fare affari, fare impresa? Uno etico e l’altro non etico? E’ una trappola logica, che offre comoda motivazione e scappatoia a chi eticamente non vuole agire. Non condivido l’affermazione, che vuole il mercato e il capitalismo né morali né immorali, individuando l’amoralità come la caratteristica del mercato e del capitalismo. Cosa significa comportarsi bene? Niente altro e niente più che svolgere e portare a termine il proprio compito secondo la regola. Che è regola dell’arte, del tempo, del luogo, della comunità. Il profitto finanziario, così, può e deve essere considerato come un elemento componente il plus economico che le imprese sono chiamate a realizzare a favore dei propri stakeholders. Dove così non è, si confonde il numero con la realtà, finendo con il diventare schiavi del ribasso.

Ed è proprio ciò, cui abbiamo assistito in questi anni, il gioco al ribasso globale, mascherato da politica della libera concorrenza. Il ribasso, in realtà, non ha niente a che vedere con la libertà di concorrenza. La concorrenza deve potersi giocare sulla qualità, non sul prezzo: soprattutto in una dimensione divenuta globale, la battaglia del prezzo non può consistere nel solo ribasso e deve potersi vincere nel suo imprescindibile rapporto con la qualità della produzione, che è insieme qualità del prodotto e qualità del metodo e dell’organizzazione della produzione. E’ evidente: il puro e semplice ribasso, soprattutto, ripeto, se inserito in un contesto globale, produce sfruttamento e, come risultato finale, annienta la concorrenza. Qui, si giocano, oggi, ruolo, funzione e competitività delle imprese nazionali: è qui che le nostre imprese possono e devono esprimersi. Su quello che loro appartiene per tradizione: l’eccellenza trasformata in valore e incremento economico. L’impresa italiana sta tuttora attraversando una crisi seria, che rischia di generare conseguenze dirompenti, essendo crisi al tempo stesso sociale, di scenario, di idee, di progettazione. Una crisi, che, però, si è sviluppata su un modello, quello italiano, nettamente positivo e capace di tenere insieme coesione sociale e sviluppo economico. Penso, e non solo per motivi di affezione, al modello d’impresa emiliano-romagnolo e alla sua forte valenza simbolica universalmente riconosciutagli, anche a livello internazionale. Un modello, strettamente legato a una forte consapevolezza di sé e del proprio valore e a un abbondante quantitativo di creatività, che ha prodotto i records e i fenomeni imprenditoriali regionali della motoristica, del tessile e della moda, della musica, della meccanica di precisione e di tutto il resto che conosciamo. Il nostro è un modello fondato sull’idea di responsabilità personale, piuttosto che sociale, sola garanzia del fatto che le cose vadano a buon fine. Che è come devono andare; come tutti, per quanto di competenza di ciascuno, dobbiamo impegnarci che vadano.

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